PRESENZA (26/11/2017)
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
In memoria di Morenu haRav Giuseppe Laras z’l
“E Itshaq intercede presso YHVH in presenza di sua moglie, perché lei é sterile. E YHVH intercede presso di Lui, e Rivkah sua moglie concepisce” ( Gn 25: 21)
La vicenda è ben nota. Itshaq, figlio del patriarca Avraham, e la moglie Rivkah, non riescono a concepire, e il patriarca implora la Trascendenza “In presenza di sua moglie”. Questa espressione, l’nochah, è resa in modi diversi nelle differenti traduzioni della Torà: “a riguardo di sua moglie”, “per sua moglie”, ma a me sembra che la traduzione più precisa sia “in presenza di” o “per la presenza di”. Ma cosa significa questo?
Mi pare che la specifica della presenza di Rivkah sia la chiave per la comprensione dell’episodio. La giovane è entrata in scena come una sorta di elemento accessorio nella vita del marito, che non l’ha scelta ma ricevuta dopo che il servo di suo padre l’aveva scelta per lui (Gn. 24). Rivkah viene allora accolta da Itshaq come una sorta di sostituzione della madre Sarah appena deceduta, e non a caso Avraham si era mosso per cercare una moglie per il figlio immediatamente dopo la perdita di Sarah. Quando la ragazza giunge presso il futuro sposo, è detto che “Itshaq la conduce nella tenda di Sarah sua madre …. E Itshaq si riconforta dopo sua madre” (Gn. 24:67). Questi indizi fanno pensare a un rapporto particolare, in cui Itshaq avrebbe visto in Rivkah l’immagine della madre deceduta, e avrebbe tentato di ricreare con essa una relazione simile, che non è, per antonomasia, il tipo di relazione più propizia per il concepimento di figli. L’impressione è quindi che Rivkah non abbia uno spazio, un ruolo, una presenza e un’esistenza proprie. Solo dopo che il marito le riconosce tutto ciò, pregando “in sua presenza”, il concepimento diventa possibile. Qualcosa del genere sembra essere implicato dal commento di Rashi, il quale spiega l’espressione “in presenza di” dicendo che Itshaq pregò in un’estremità della stanza, con Rivkah all’estremità opposta, come a dire che questa disposizione lo obbligava a vedere finalmente la moglie come una persona, in un modo che non permetteva la cancellazione della presenza di lei. La causa della sterilità è quindi forse da ricercare proprio nel fatto che, affinche la vita sia possibile, è necessario poter incontrare l’altro nella pienezza della sua alterità. L’alternativa è quella di assorbire l’altro e ridurlo fino a cancellarlo. A quel punto, non ci può essere relazione e quindi vita, perché l’Altro è ridotto allo Stesso.
Questa dinamica mi sembra essere al cuore di ogni abuso perpetrato ai danni delle donne. Parlo chiaramente delle violenze più gravi, ma anche di tutte le forme più “morbide” di riduzione della loro visibilità e del loro peso, ossia della loro “presenza”. Perché fondamentalmente quando un uomo abusa di una donna, in un modo o in un altro, non fa che seguire questo istinto di cancellazione dell’altro e di negazione della sua presenza. Tale presenza richiama il maschio ai suoi limiti, alle sue inadeguatezze, e al fatto che (Grazie a D-io!! ), il mondo non gli appartiene. Gli atteggiamenti che ne conseguono derivano quindi proprio dal disperato bisogno del maschio di rifiutare tutto ciò.
Questa riflessione mi riporta al ricordo delle discussioni intrattenute col mio maestro, rav Giuseppe Laras, scomparso pochi giorni fa, a cui devo, fra l’altro, la scelta del rabbinato, che fu un suo suggerimento in una fase della mia vita in cui non avevo realizzato questa possibilità. Durante i miei studi sotto la sua supervisione, discussi spesso con Rav Laras del mio impegno per dare alle donne più presenza nella vita ebraica e nelle espressioni rituali dell’ebraismo. Tengo peraltro a specificare che questo non passa necessariamente attraverso una totale eguaglianza rituali fra i sessi, ho infatti conosciuto luoghi ebraici paritari in tal senso ma comunque sessisti, e altri che, senza essere paritari, sapevano garantire piena presenza e dignità alle donne. Ho quindi imparato a diffidare delle etichette e degli slogan. Tornando al soggetto, rav Laras mi incoraggiò anche ad approfondire questo argomento, che poi sviscerai nel mio libro “Ascolta la sua voce”. Una cosa sulla quale rav Laras insisteva sempre, e fu l’ultima cosa che mi disse l’ultima volta che lo incontrai, pochi anni fa, era “Ricordati di fare Qeruv Rehoqim, di riavvicinare i lontani; è la cosa più importante”. Per me i lontani sono sempre stati coloro che per diverse ragioni si erano allontanati dalla spiritualità. Ma anche coloro che, suscitando con la loro presenza e la loro differenza quelle pulsioni di cancellazione e annullamento dell’altro di cui sopra, erano magari tollerati ma solo a condizione che la loro presenza non fosse troppo evidente o ingombrante, il che li aveva portati ad allontanarsi. Parlo di molte donne chiaramente, ma anche di molte persone omosessuali.
Sta a tutti noi impegnarci attivamente per ridurre e cancellare questa visione del mondo, quella in cui alcune categorie di esseri umani ritengono di poter imporre ad altri l’esclusività della loro presenza. Sta a noi non nascondere dietro di noi l’Altro ma, come seppe infine fare nostro padre Itshaq, porci invece in una dimensione dove l’altro sia visibile ai nostri occhi, dove la sua presenza sia pienamente onorata e riconosciuta, e mai subita o tollerata solo se trasparente. Allora vi sarà fecondità, concepimento, vita.
FRAGILITA’ (4/10/2017)
Nel libro di Vayqrà/Levitico, sono elencate tutte le feste dell’anno ebraico.
Dopo aver concluso tale lista, il testo aggiunge:
“Queste sono le solennità di YHVH nelle quali proclamerete chiamate di distinzione, […] Ma il quindici del settimo mese, quando avrete raccolto il raccolto della terra, celebrerete una festa per YHVH per sette giorni. […] Dimorerete in succot/capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in succot/capanne,” (Lev. 23:37-42).
La festa di Succot, che già era stata dettagliata all’interno della lista, viene quindi ripetuta e introdotta da un “ma”, a sottolinearne la particolarità. Succot chiudeva infattti il raccolto agricolo, e conclude la stagione delle celebrazioni ebraiche, per cui è detta Hag haAssif, festa del raccolto, siccome in un certo senso tesaurizza tutto il patrimonio dell’anno ebraico. Per questo è chiamata nella letteratura rabbinica “la festa” per eccellenza. Forse perché in essa la dimensione miracolosa è praticamente assente. Non si commemora infatti nessun evento preciso, ma la vita quotidiana del popolo di Israele nel deserto, animato da fiducia ma sospeso e senza certezze. Pochi giorni dopo Yom Kippur, e alla conclusione del ciclo delle feste annuali, ossia in una situazione in cui si dovrebbe aver raggiunto un equilibrio interiore soddisfacente, ci è richiesto di uscire dalle nostre residenze e abitare per una settimana in una capanna precaria, la Succà. Per ricordare che la vita è nomadismo, rimessa in dubbio necessaria e costante di quel che avremmo potuto considerare acquisito. Se da un lato è umano voler cristallizzare le cose e voler tesaurizzare i risultati ottenuti, l’ebraismo considera l’imborghesimento dello spirito come uno dei rischi maggiori e più insidiosi. Quindi la legge ebraica prescrive di uscire dalla presunta solidità delle proprie dimore, delle proprie convinzioni e di quel che si crede acquisito, per celebrare gioiosamente la fragilità e la transitorietà della condizione umana.
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FARE L’UMANO (18/9/17)
“Facciamo l’umano…” [Gn. 1:26]
In questo noto e controverso passo biblico la Trascendenza annuncia la creazione della specie umana parlando, apparentemente, al plurale. Un midrash rabbinico [Bereshit Rabbà 8:5] suggerisce poeticamente che il plurale si riferisca alle schiere degli emissari divini i quali, all’annuncio dell’imminente creazione del genere umano, si sarebbero divisi in due fazioni. La prima gridava “Sia creato!”, mentre il secondo gruppo dissentiva esclamando: “Non sia creato!” La Trascendenza avrebbe interrotto l’acceso dibattito annunciando: “Perché continuate a dibattere? Già abbiamo fatto l’umano.”
Il dibattito fra i due gruppi si riferisce al fatto che abbia senso o meno il creare un’entità con un forte potenziale, ma strutturandola in un modo tale da rendergli di fatto impossibile il realizzarlo. In questa lettura l’essere umano è visto come il prodotto di questa discussione, e non è quindi generato nonostante l’opposizione del “Sia creato!” e del “Non sia creato!”, ma grazie ad essa e attraverso di essa. Come a dire che l’umano è nello stesso tempo degno e indegno di essere creato, e porta indelebilmente in sé i segni di questa sua natura.
La creazione dell’essere umano, avvenuta secondo la tradizione proprio in questa stagione, è alla base delle ricorrenze che aprono l’anno ebraico, Rosh haShanà e Yom Kippur. Questi momenti si svolgono all’insegna della Teshuvà,“ritorno”, perché è come se ogni individuo fosse chiamato a tornare a quel momento di nascita, in cui l’umanità è emersa da questa frizione fra dignità e indegnità del suo stesso essere. Questo ci conduce alla seconda accezione della parola teshuvà, ossia “risposta”. Perché ogni essere umano, con le sue scelte di vita, costituisce una reazione e una risposta viventi a queste due posizioni, “Sia creato!” e “Non sia creato!”. Sarà questa risposta a giustificare o meno la sua esistenza e quindi l’esistenza dell’intera umanità, permettendo quindi la continuazione di un costante processo di creazione dell’umano, creazione che non si situa quindi nel passato, ma in una dimensione a-venire.
Quale sarà la nostra risposta?
Shanà Tovà, ketivà v’chatimà tovà
ETZ HAIM: EBRAISMO SENZA MURA
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LA FINE DELLA SOFFERENZA (1/9/17)
“E se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo farà stendere e fustigare in sua presenza, secondo il suo crimine, in numero. Gli darà quaranta colpi, non aggiungerà, affinché aggiungendo ad essi non lo colpisca con un colpo maggiore, e il tuo fratello sarebbe infamato ai tuoi occhi.” [Dt. 25:2-3]
“Quante frustate gli sono inferte? Quaranta meno una, come è detto ‘In numero gli darà quaranta colpi’, che significa un numero prossimo a quaranta” […]Ravà ha detto: Quanto sciocche sono le persone che si alzano davanti a un rotolo della Torà, ma non si alzano davanti a un grande uomo. Ché in un rotolo della Torà è scritto quaranta, ma i Saggi sono arrivati e ne hanno sottratta una.” [TB Maccot 22 a-b]
L’amministrazione di una punizione corporale non dovrebbe sorprenderci perché appartiene a una serie di metodi educativi che oggi, fortunatamente, non sono più in uso. Va notata però l’attenzione riservata alla dignità del colpevole, il quale merita di essere punito, ma mai degradato oltremodo. Il testo passa infatti dal termine “colpevole”, anzi רָשָׁע, letteralmente “malvagio”, alla parola “fratello”. La giustizia, se amministrata equamente, dovrebbe fare in modo che non si perda mai di vista il fatto che colui che ci ha lesi è nostro fratello, fino in fondo. Vi è nel diritto ebraico una volontà di considerare che il colpevole è prima di tutto un essere umano a noi affine.
In tal senso, il commento talmudico citato è fondamentale. In primo luogo i Maestri elaborano una strategia di lettura in cui l’espressione biblica “in numero”, viene interpretata, molto liberamente, nel senso di “una quantità prossima a quaranta”. I Maestri hanno quindi deciso che, se è prossima, meglio allora che sia inferiore. Siccome la Torà insiste sull’importanza di non aggiungere frustate a quelle previste, i Maestri preferiscono diminuire la quantità.
Il passo attribuisce poi al maestro babilonese Ravà un’opinione di grande profondità, che ci conduce all’essenza della Torà. Secondo Ravà il testo della Torà merita senza dubbio grande rispetto, ma ancor più rispetto va ai Maestri che lo interpretano al fine di diminuire il numero delle frustrate inferte al colpevole. Tale capacità interpretativa vale loro la qualifica di “grandi uomini”. Questo caso non è peraltro l’unico nella cultura rabbinica in cui una richiesta precisa della Torah viene letta in modo molto libero. La Torà prescrive chiaramente di contare cinquanta giorni fra le feste di Pesach e Shavuot [Lev. 23:16], ma i Maestri hanno diminuito il numero a quarantanove.
Ma per illustrare il concetto, il Talmud preferisce usare l’esempio delle frustate, perché quello che conta non è tanto la capacità e la volontà di modificare una legge, ma la volontà di farlo al fine di diminuire la sofferenza di un essere umano, quantunque colpevole di un crimine.
E, se è vero che “La fine della sofferenza non giustifica la sofferenza, e quindi non c’è fine alla sofferenza” (J.Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino), una disciplina spirituale ha senso e dignità solo nella prospettiva di alleviare la sofferenza e diminuire il peso dell’esistenza. Di conseguenza, chi è in grado di usarla a tal fine è degno di un rispetto superiore a quello dovuto a qualsiasi testo, fosse anche il più elevato.
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PROTENDERSI ( 2/8/17)
Con il digiuno di Tisha b’Av, si è chiuso ieri uno dei periodi più oscuri del calendario ebraico, quello che ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme e di altre calamità che hanno colpito il popolo ebraico nel corso della sua storia. Celebrando il ritorno alla normalità e l’uscita da questa fase di tristezza con una passeggiata e un bagno in un lago di montagna (fra le varie attività proibite in tale periodo di lutto vi è anche quella di bagnarsi al di fuori delle strette esigenze igieniche), mi sono imbattuto in questa piantina subacquea il cui fiore fendeva la superficie delle acque protendendosi verso il sole. Questa visione, che condivido nella foto, ha evocato in me due immagini.
La prima è quella degli Tsitsiòt, frange rituali che gli ebrei hanno obbligo di portare agli angoli dei vestiti, la cui radice in ebraico significa sia “germogliare” che “guardare”. Lo Tzitzit ci ricorda la necessità di uscire dalla contemplazione di noi stessi per andare alla ricerca di una fonte di luce e di calore che necessariamente si situa in un altrove verso cui possiamo rivolgerci, ma che non possiamo toccare né possedere.
La seconda è l’idea di Torah, parola la cui radice ebraica significa “insegnamento” ma anche “fonte di luce” che chiaramente da un lato attira l’attenzione su se stessa, ma anche su tutto ciò che illumina.
L’immagine di questo fiore, arricchita da questi due concetti, mi è parsa un’efficace metafora dell’esistenza umana, regolare alternarsi di fasi di sommersione e quasi soffocamento, e di altre dove è possibile tentare di protendersi verso quella Fonte, per quanto lontana e irraggiungibile.
Il resto è dettaglio.
I PRESENTI E I PASSATI (17/07/2017)
Uno degli aspetti più discussi, commentati e incompresi della Torà è il fatto che il grande Moshè, l’uomo che ha guidato Israel fuori dall’Egitto e poi per 40 anni nel deserto muoia immediatamente prima di entrare nella terra di Canaan. Un aspetto generalmente trascurato è che la morte di Moshè, pur annunciata in precedenza, segue immediatamente un episodio spesso trascurato. L’esegesi ebraica classica considera che la semichut, ossia la prossimità di due narrazioni nel testo, esprime necessariamente una relazione diretta fra esse. L’episodio in oggetto è quello in cui le cinque figlie di un uomo chiamato Tselofchad chiedono a Moshè di poter ricevere in eredità la terra che sarebbe spettata al padre, morto senza figli maschi, laddove la legge non prevede che le donne ereditino. Il patrimonio familiare rischierebbe quindi di andare perduto, e con esso la memoria del padre. Le donne si rivolgono al profeta in modo accorato, chiedendo di non essere vittime di quella che percepiscono come una discriminazione ingiusta, che non solo priverà loro dell’eredità con tutto il peso simbolico che essa rappresenta, ma cancellerà anche il nome del padre dalla memoria collettiva.
“Perché dovrebbe il nome di nostro padre scomparire dalla sua famiglia, per il fatto che non ha avuto figli maschi? Dacci un possedimento in mezzo ai fratelli di nostro padre». E Moshè avvicinò la loro causa davanti a YHVH.”[Num. 27:4-5]
La tempistica dell’avvenimento non è anodina. Dopo decenni trascorsi nel deserto, gli israeliti sono ormai prossimi ad entrare nella terra, che deve essere quindi divisa equamente fra le tribù e le famiglie. Questo aspetto accentua la gravità della situazione delle cinque donne.
Moshè però non risponde loro, si rivolge invece direttamente alla Trascendenza, che lo istruirà dicendogli di attribuire effettivamente l’eredità alle donne: “Le figlie di Tselofchad dicono bene. Darai loro in eredità un possedimento tra i fratelli del loro padre e farai passare ad esse l’eredità del loro padre” [Num. 27:7]. E subito dopo aver fornito il dettaglio di questa norma, la Trascendenza ingiunge a Moshè: “Sali su questo monte degli Avarim e contempla il paese che io do agli Israeliti. Quando l’avrai visto, anche tu sarai riunito ai tuoi antenati, come fu riunito Aharon tuo fratello.” [Num. 27:12-13]
I Maestri hanno però osservato che Moshè si sottrae alla richiesta delle donne, e hanno immaginato che l’ingiunzione di andare a morire sulla montagna sia una diretta conseguenza dell’incapacità del leader di misurarsi con la sofferenza e l’angoscia di queste persone. Un commento rabbinico immagina la Trascendenza dire al grande profeta: “Ti sei sottratto alla loro causa, ma non ti puoi sottrarre da me. Sali sul questo monte degli Avarim …” [Shir haShirim Rabbà 1:10]. Il nome stesso della montagna è pesante di significato, perché Avarim è plurale di Avar, passato. E’ quindi il monte dei Passati, di coloro il cui ruolo non è più fra i presenti. Perché Moshè si è sottratto alla responsabilità di rispondere direttamente alle cinque donne, preferendo lasciare tale responsabilità alla Trascendenza. Infatti il passo che recita “Moshè avvicinò la loro causa davanti a YHVH” può anche essere letto come “Moshè sacrificò la loro causa davanti a YHVH”, perché la radice קרב indica sia l’avvicinarsi che il sacrificare. Forse il senso è proprio quello che Moshè sacrifica quella che doveva essere la sua responsabilità in quel momento alle presunte esigenze del suo rapporto con la Trascendenza.
Un passo talmudico [TB Sanhedrin 8a] suggerisce che un leader dovrebbe poter letteralmente portare la propria comunità, “come un padrino porta un lattante” [Num. 11:12], immagine tenera ma anche molto esigente, che possiamo applicare anche a chi non è in una posizione di leadership. La nostra esistenza ha un senso fino a quando siamo in grado di portare la responsabilità dell’altro, di non sottrarci e di non ignorare il suo appello. Quando questo non è più possibile, dobbiamo essere in grado di farci da parte, ed è fondamentalmente questa la ragione reale per cui Moshè deve accettare di salire sul monte dei Passati, perché non è più in grado di essere presente all’altro.
Inoltre anche il soggetto dell’episodio, un patrimonio ereditario, è profondamente simbolico. Vivere significa anche saper dare ad ognuna delle persone che attraversano la nostra esistenza la parte che gli spetta, anche quando questo è difficile, o scomodo. Perché, come nel caso di Moshè, ciò richiede a volte di rimettere in discussione i nostri pregiudizi e di guardare in faccia realtà che preferiremmo evitare.
Diversi midrashim rabbinici dipingono Moshè come recalcitrante all’idea di doversene andare. E’ normale non provare piacere nell’immaginare il nostro mondo senza di noi. Per dirla con Safran Foer, “Ho paura che il mondo continui senza di me [..]. Sono forse un uomo malvagio perché sogno un mondo che termina con la mia fine?”[Ogni cosa è illuminata]
Eppure una parte importante del nostro cammino di crescita verso la consapevolezza è costituita dal realizzare e accettare che la nostra presenza ha senso fino a quando essa costituisce appunto una presenza, in grado di farsi carico dell’altro. L’incapacità di accogliere la sofferenza dell’altro segna invece la fine del senso, e a quel punto, il mondo può andare avanti anche senza di noi.
PARLARE A SE STESSI (8/6/17)
Immediatamente dopo il racconto dell’inaugurazione del Mishcan Ohel Moed, la Tenda dell’Incontro nel deserto, la Torà introduce una passo apparentemente semplice, ma con una particolarità testuale spesso ignorata:
“E quando Moshè veniva verso la tenda dell’incontro per parlare a lui, ascoltava la voce che si parlava a lui da sopra il coperchio che è sull’arca della testimonianza …[Num. 7:89]”
Il commentatore medievale Rashi osserva che il verbo usato nell’espressione ” che si parlava”, מִדַּבֵּר, midabér, è una forma equivalente al riflessivo מִתְדַּבֵּר, mitdabér, “parlarsi”. Nel senso che, secondo Rashi, la Trascendenza parlava a se stessa, e Moshè percepiva questo parlare in modo indiretto. Un’idea provocatoria e di incommensurabile valore. Normalmente nella Torà troviamo l’espressione יְדַבֵּר, ydabér, parlare, semplicemente, ma qui vi è appunto una particolarità nella vocalizzazione, fornitaci solo dalla lezione masoretica che, fra il sesto e il decimo secolo della nostra era, fissa la vocalizzazione, l’accentazione e il testo della Torà oggi considerato come ufficiale. Se non fosse per questo, qualsiasi lettore, ora come allora, avrebbe letto questo passo medabér, parlare, e non midaber, parlarsi. Va detto che generalmente le traduzioni non tengono conto di questa variante. Fra quelle antiche, solo quella di Martin Lutero lo fa, traducendo “zu sich reden”, “parlando a se stesso”
Le implicazioni di questa lettura sono profonde. Perché mai la Torà userebbe questa forma verbale proprio nel momento in cui il Mishcan è completato? Si tratta di un momento di armonia, non solo fra le tribù d’Israel, ma anche fra Israel e la Trascendenza. Dopo la trasgressione del vitello d’oro, infatti, Moshè aveva spostato il luogo della sua comunicazione col Divino fuori dall’accampamento[Es. 33:7], come a marcare lo stato di rottura della relazione. L’inaugurazione del Mishkan collocato al centro dell’accampamento rappresenta quindi, dopo molti mesi, il ritorno della presenza divina in seno a Israel. Forse proprio per questo la Torà ricorda in questo punto che anche il più grande dei profeti, Moshè, non ascoltava davvero ciò che la Trascendenza gli diceva, ma piuttosto percepiva l’eco di una conversazione intima interna ad essa. Infinito e finito parlano ognuno un proprio linguaggio precipuo, che non permette una comunicazione diretta. Questo garantisce loro una certa indipendenza, al prezzo però di una grande solitudine. E proprio nel momento in cui gli israeliti avrebbero potuto pensare il contrario, forti del loro nuovo santuario, questa espressione interviene a ricordarlo. Forse per evitare di cadere nella pericolosa idea che il culto organizzato, simboleggiato dal Mishcan, possa in qualche modo manipolare l’energia della Trascendenza, il cui linguaggio ci è necessariamente estraneo. Da aggiungere in versioni future, intervento Ayelet lagorio già parafrasato qui: è anche possibile che il versetto sottolinei efficacemente che non è possibile attingere alla Trascendenza in modo diretto. L’ascolto si rende possibile solo attraverso noi stessi, nel silenzio fra una parola e l’altra, tra un respiro e l’altro. O ancora come in uno specchio che riflette la figura dell’essere umano, dove la Trascendenza può essere cercata in quello spazio vuoto che esiste tra la realtà ed il desiderio,tra l’azione e l’intenzione.
Ma siccome la Torà rappresenta per la cultura ebraica la fonte della riflessione e dell’insegnamento, questo passo suggerisce anche altro. Ogni comunicazione è essenzialmente circolare, perché espressione che emana da un’interiorità a cui tende a ritornare, rimanendo fondamentalmente estranea ai destinatari i quali, novelli Moshè, non possono fare altro che cercare di percepire quella che altro non è se non una conversazione intima che fa uso di un linguaggio particolare. Possiamo trovare un un’allusione a questa idea in un midrash [Shemot Rabbah 28:1] dove è detto che le tavole della Torà misuravano sei palmi, di cui al momento della Rivelazione due erano tenuti, per modo di dire, dalla Trascendenza, due da Moshè, mentre i due centrali restavano intonsi. Vi era quindi al centro uno spazio vuoto, intangibile, che nello stesso tempo univa e separava permettendo la necessaria libertà di ognuna delle parti. La relazione era quindi costruita su questo spazio vuoto al centro delle tavole, su questo “fra-intendere” di cui parla Canetti quando dice che “Il poeta … si fa conoscere per mezzo di fraintendimenti” [E.Canetti, La tortura delle mosche]. La comunicazione è analogamente basata su questa distanza incolmabile fra ciò che è espresso e ciò che è percepito. Perché è questo ad aprire le porte di un intendere diversamente, che esclude un “comprendere” nell’accezione latina di “cum prehendere”, ossia afferrare, abbracciare, la quale implica il fare propria un’espressione che non ci appartiene, un’espressione che invece possiamo solo percepire a distanza, o al meglio accarezzare, mai inglobare. Questo “intendere diversamente” il parlare a se stessi degli altri, garantisce anche un diverso intendimento da parte altrui del nostro parlare a noi stessi. Ma è proprio tale fenomeno, che spesso chiamiamo erroneamente malinteso, a permettere l’unica forma di comunicazione possibile. Solo la somma di questi fraintendimenti, generati dalla natura circolare di ogni comunicazione, da questo “parlare a se stessi”, rende possibile un intendersi.
STUDIO CON IL RABBINO HAIM CIPRIANI
(accessibile via Skype)
Quest’anno, con la mia comunità Etz Haim, la comunità senza mura, studiamo il trattato talmudico Avodah Zarah, che affronta il problema della cosiddetta idolatria, letteralmente “lavoro disperso”. E’ un fenomeno psicologico o religioso? Quando e come si manifesta? Perché la cultura ebraica classica vi si misura talvolta con veemenza? Le riflessioni del Talmud, base di tutto il pensiero ebraico, costituiscono un corpus di grande valore per la comprensione dell’essere umano.
Parallelamente continuano i cicli di studio su argomenti biblici ed altri aspetti del pensiero ebraico.
Prossimi appuntamenti di Etz Haim (accessibili via Skype):
Giovedì 8 giugno – Talmud
Giovedì 15 giugno – Torah (approfondimenti su passaggi biblici)
Giovedì 29 giugno – Talmud
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Le legherai come segno sulle tue braccia [Deut. 6:8] – וּקְשַׁרְתָּם לְאוֹת עַל יָדֶךָ (2/6/2017)
Ogni ebreo osservante conosce la sensazione che si prova quando i Tefillin, i filatteri che vengono indossati durante la preghiera del mattino, stringono il braccio generando una diminuzione della circolazione del sangue nell’arto, con un effetto talvolta fastidioso. Questo sangue è portatore di vita, ed è per questo che noi non lo consumiamo negli animali, o quantomeno tentiamo di ridurlo al massimo attraverso la casherizzazione della carne (ancora meglio poi riuscire a ridurlo a zero non consumando carne del tutto …). Proprio a causa dell’importanza del sangue, i centri trasfusionali di tutto il mondo ne hanno regolarmente bisogno. In particolare nei paesi mediterranei le donazioni di sangue sono in calo. Dal punto di vista della normativa ebraica, donare sangue è una mitsvah, una responsabilità spirituale obbligatoria, non meno importante delle altre. Ed è una mitsvah che la maggior parte delle persone possono compiere, secondo la regolamentazione in vigore in Italia ogni tre mesi. Non farlo essendo al corrente della necessità costituisce una violazione del principio “Non ti tratterrai sul sangue del tuo prossimo” [Lev. 19:16], che vieta di ignorare la sofferenza e il bisogno dell’altro. Una violazione per inazione non è meno grave di una trasgressione attiva.
La coscienza costante del bisogno dell’altro è una componente fondamentale della spiritualità ebraica, e la presenza regolare davanti a questo tipo di esigenze costituisce l’equivalente moderno dell’antico Tamid, l’avvicinamento sacrificale costante offerto due volte al giorno alla Trascendenza. Donare il proprio sangue è una forma di Chesed, generosità e dono di sé, semplice e di enorme impatto. Se chi non lo fa tentasse di fare uno sforzo per farlo, e chi già lo fa si impegnasse a farlo con maggiore regolarità, la situazione migliorerebbe decisamente. Quando la Torà dice:“Perché questa mitsvah che io lego a te oggi non è straordinaria per te, né lontana da te. Lei non è nei cieli ….” [Deut. 30:11-12] vuole insegnare che esistono molti atti alla portata di tutti che possono migliorare l’esistenza di tanti esseri umani che vivono sotto il nostro stesso cielo.
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THE SHAPE OF LOVE – צורת האהבה (29/5/17)
Nel calendario liturgico ebraico, in cui il ciclo annuale delle letture sinagogali è in teoria del tutto indipendente da quello delle feste, la lettura della pericope di Bemidbar Sinai, (Num 1:1 – 4:20) coincide solitamente con la festa di Shavuot, e così accade quest’anno. Il libro di Bemidbar/Numeri narra le peregrinazioni degli israeliti durante la loro lunga traversata, mentre Shavuot celebra il dono della Torà, l’insegnamento che è la fonte di ogni insegnamento. Ma tale combinazione fra la pericope settimanale e la festa di Shavuot non è casuale, perché l’evento celebrato non può aver luogo in nessun altro luogo che non sia il deserto, ossia uno spazio vuoto che sta al centro di ogni cosa, esattamente come al momento della Rivelazione il monte Sinai si trova al centro del popolo ebraico riunito intorno. Il Sinai si trova infatti nel deserto omonimo, ma è a sua volta reso desertico e inaccessibile dal fatto che gli israeliti ricevono l’ordine di rimanervi intorno senza avventurarvisi: “Limita il popolo intorno dicendo: Guardatevi dal salire sul monte e di toccare la sua estremità; chi toccherà il monte morire morirà” [Es. 19:12].
In modo analogo la pericope di Bemidbar Sinai, che abbiamo letto questo Shabbat nelle sinagoghe come una sorta di preparazione a Shavuot, illustra la formazione assunta dal popolo ebraico durante i suoi spostamenti nel deserto, e questo a partire da dopo il Sinai. Nella disposizione descritta, il popolo avanza mantenendo costantemente al suo centro lo stesso tipo di vuoto in precedenza costituito dal Sinai, ora sostituito dal Mishcan Ohel Moed, la tenda dell’incontro, che contiene le tavole della Tetimonianza, ma al cui interno nessuno può davvero penetrare, e che non appartiene a nessuna delle dodici tribù d’Israel. Il Mishcan all’interno del popolo rappresenta quindi l’equivalente del Sinai al momento della rivelazione, un’area che non può essere occupata o colonizzata da nessuno. E’ quindi una sorta di deserto, una dimensione in cui vuoto e pieno coesistono, ma che resta assolutamente inviolabile e inaccessibile, come se affinché l’insegnamento possa essere trasmesso fosse necessario essere portati dal deserto e nello stesso tempo portare il deserto all’interno di sé, e questo sia collettivamente che individualmente.
La conseguenza dell’inviolabilità e dell’intangibilità di questo centro è proprio nel fatto che esso non può appartenere a nessuno, e che nessuno può quindi arrogarsi il diritto di poterne rivendicare una sorta di dominio o di controllo. Esso è caratterizzato quindi prima di tutto non tanto dalla sua facoltà di unire e avvicinare, quanto da quella di separare e distanziare. Qualsiasi relazione spirituale si articola proprio intorno a questa idea. E’ infatti proprio l’inviolabilità di questo centro a permettere la presenza di una Trascendenza in seno all’umanità e la possibilità per l’umanità di incontrarsi intorno ad essa, anche se mai all’interno di essa.
Aggiunto dopo pubblicazione: Possiamo trovare un un’allusione a questa idea anche in un midrash [Shemot Rabbah 28:1] dove è detto che le tavole della Torà misuravano sei palmi, due erano tenuti, per modo di dire, dalla Trascendenza, due da Moshè, mentre i due centrali restavano intonsi. Vi era quindi al centro dell’incontro uno spazio vuoto, intangibile, che nello stesso tempo univa e separava permettendo la necessaria libertà di ognuna delle parti.
Secondo alcuni Moshè esercitò una forza eccessiva dal suo lato, o forse tentò di afferrare una larghezza maggiore andando ad “occupare” la zona centrale delle tavole, provocandone la caduta e la seguente rottura.
Questa immagine ricorda anche la fragilità della relazione che entrambe le parti hanno la responsabilità di mantenere in tensione senza spezzarla. Ma in nessun caso vi può essere sovrapposizione delle due parti in cause. La loro relazione non potrà che svilupparsi nella condivisione dell’impossibilità di condividere lo spazio vuoto al centro delle tavole.
Solo nel miDBaR/Deserto, il luogo da cui il DaBaR/Parola è stato sottratto, come aspirato dal silenzio, l’insegnamento può quindi aver luogo nella forma del dono della Torà al Sinai, e solo nel Midbar/Deserto l’insegnamento può essere custodito e coltivato all’interno del popolo nella forma del Mishcan. Solo in questo luogo inviolabile e inaccessibile intorno a noi e dentro di noi il mistero dell’incontro con l’A/altro può prendere forma, con tutte le sue infinite potenzialità ma anche con tutti i suoi rischi. Forse è di questo che parla il Talmud nel descrivere il rischio incorso dal sommo sacerdote quando il giorno di Kippur penetrava nel Kodesh haKodashim, la parte più inviolabile del Santuario, uno spazio vuoto ma talmente denso che alcuni sacerdoti morivano penetrandovi [Mishnà Yoma 5:1 [TB 52b]].
In ogni incontro, in ogni relazione, esiste questa zona di Midbar/Silenzio desertico, un vuoto e un non detto fondante la cui inviolabilità permette alla relazione di esistere. Forse perché l’inaccessibilità di quest’area permette ad ognuno di modellarla secondo il proprio sentire, come suggerito da un Midrash secondo cui al Sinai non fu data una Torà, ma molteplici Torot, una per ogni individuo presente, perché ognuno ascoltò l’insegnamento secondo quella che era la propria natura e facoltà di comprensione, “secondo la forza di ognuno” [Shemot Rabbà 5:9].
Come nel caso del sommo sacerdote a Kippur, esplorare questo spazio sacro e inviolabile è effettivamente cosa ardua è perigliosa, alla quale talvolta l’essere umano non può però sottrarsi, a rischio della propria incolumità.
Questo è uno dei temi più profondi di Shavuot. Ricevere l’insegnamento nel Midbar/deserto e conservarlo nel proprio Midbar/deserto interiore significa anche confrontarsi con la necessità di preservare l’inviolabilità di tale centro, un centro la cui non condivisibilità è il fattore da cui tutto dipende, perché è proprio questa a garantire la sostenibilità della relazione spirituale. A Shavuot accettiamo e celebriamo questa dimensione magnifica e nello stesso tempo angosciosa dell’esistenza umana, la necessità di questo centro che è nello stesso tempo separazione assoluta, solitudine e isolamento, ma anche incontro e armonia possibili.
“La loro relazione non era definita da ciò che essi potevano condividere, bensì da quello che non potevano. Tra due esseri qualunque c’è una distanza unica, invalicabile, un santuario inaccessibile. Qualche volta prende la forma della solitudine. Qualche volta prende la forma dell’amore”
[J.Safran Foer, Here I am]
SIMULACRI (7/5/2017)
“YHVH parlò a Moshè dopo che i due figli di Aharon erano morti nell’avvicinarsi davanti a YHVH. YHVH disse a Moshè: “Parla ad Aharon, tuo fratello, e digli di non entrare in qualunque momento nel santuario, oltre il velo […]””. [Lev 16 : 1-2]
Quando un rabbino, come me stamane, chiude il feretro di una persona strappata troppo presto a questo mondo, il pensiero va a questo passo, che apre la pericope sinagogale letta ieri mattina. Questa Sidrà, “Dopo la morte”, inizia evocando la tragica scomparsa dei figli di Aharon, il fratello di Moshè e primo sacerdote di Israel. Il fatto stesso che vi sia un dopo la morte, ossia una possibilità per chi rimane in vita di ritrovare la propria energia vitale, almeno parzialmente, è nello stesso tempo meraviglioso e terrificante. Perché l’esistenza umana non può ritrovare la propria verginità dopo aver incontrato la morte, che da quel momento sarà parte integrante della vita stessa.
In particolare, con la morte dei figli di Aharon, di questi sacerdoti trasportati da zelo ed entusiasmo, si spegne un’idea che forse aveva animato fino a quel momento molti, quella che la volontà di servire un’ideale, religioso o di altro tipo, implichi necessariamente riuscita, successo, lunga vita. Anzi, a scanso di equivoci, il testo specifica come i due uomini siano morti “nell’avvicinarsi davanti a YHVH”; non quindi nel cimentarsi con chissà quale obbrobriosa pratica, ma nell’anelare alla Trascendenza.
E siccome vi è una parte di morte in ogni cosa della vita, l’uomo deve imparare a vivere con essa. Questo suggerisce che tutta la vita dei figli d’Israel a partire da quel momento è nell’ombra di questa morte. Su questo sfondo, Aharon viene istruito del fatto che solo una volta all’anno egli potrà entrare nella parte più distinta del santuario, quasi a sottolineare che l’esperienza della morte non può che fragilizzare e creare una sorta di velo fra l’uomo e la Fonte delle sue energie vitali.
Eppure, la possibilità di scegliere la vita rimane, quantomeno teoricamente. L’ordine dei titoli delle pericopi che si succedono nel libro del Levitico è di per sé soggetto di riflessione. Acharè Mot, “Dopo la morte”, Qedoshim, “Spiritualmente distinti”, Emor, “Dire”. La morte è ciò che appiattisce ogni narrativa individuale, giacché ammutolisce non solo chi scompare, ma anche coloro che restano. E’ per questo che la legge ebraica vieta di parlare a chi è in lutto, e perfino di salutarlo, a meno che non sia lui o lei a farlo per primo. Analogamente, a un pasto di lutto vengono consumati alimenti tondi senza aperture, come lenticchie o uova, per simboleggiare questa impossibilità di comunicazione.
Ma l’ordine di questi tre titoli ricorda che la Qedushà, la “distinzione”, è anche quel cammino attraverso cui alcuni ritrovano la possibilità di vivere a a dispetto di questo essere nel “dopo”. E questo si esprime nel “dire”, nel poter elaborare e distillare una narrativa di sé e un senso del vivere nonostante tutto questo.
“Quando hanno portato via i miei figli, mi sono sentita vecchia di mille anni, ma adesso non è più così, sento di avere vent’anni in meno di quanti ne avevo allora, e non so perché succeda, ma credo che sia la lezione del nostro cammino. C’è sempre un porre la vita al centro di tutto. Sì, noi non abbiamo nulla a che fare con la morte. La vita è il significato profondo di tutto quello che facciamo. Tutto quello che c’è di creativo ha a che fare con la vita, non con la morte. E combattere per la vita è rivoluzionario, perché il sistema ti chiede il contrario: vuole che ti adatti al finale, vuole che ti adatti alla morte, vuole che tutto termini nei musei, nei monumenti. Noi siamo vecchie e molte di noi sono già morte, ma sappiamo che c’è ancora molto per cui lottare; andranno avanti altri, perché si comincia ogni giorno, e l’importante è lasciare una traccia di vita.” [“Le Pazze – Un incontro con le madri di Plaza de Mayo”, di Daniela Padoan].
Forse è per questo che la il pensiero biblico mostra così tanto orrore per steli e monumenti, per tutto ciò che sembra voler sfidare la mortalità dell’uomo: “Guardati bene dal far alleanza con gli abitanti del paese nel quale stai per entrare, perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anzi distruggerete i loro altari, spezzerete le loro stele e taglierete i loro pali sacri.”[Es. 34:12-13]. Perché il sistema vuole i monumenti, e noi spesso preferiamo questi simulacri fissi e immutabili che sono segni della nostra incapacità di “scegliere la vita” [Deut. 30:19] nella sua inevitabile impermanenza. E finiamo per conservare i simulacri e distruggere la vita. Invece dovremmo poterli abbattere, distruggere, per poter finalmente vivere.
PASSAGGI (9/4/17)
La luna piena si avvicina, e con essa, al di là delle instabilità umorali di alcuni, la celebrazione di Pesach, questo momento straordinario della storia ebraica in cui gli israeliti vengono liberati dalla schiavitù egiziana, per essere gloriosamente condotti …. a morire nel deserto!
Detto così suona poco invitante, me ne rendo conto. Ma guardiamo più da vicino. E’ troppo facile leggere la vicenda dell’estrazione dall’Egitto (non amo chiamarla “uscita”, siccome gli israeliti sono cacciati, espulsi contro la loro volontà, come vedremo) e del “passaggio/salto” (Pesach) come l’uscita da un mal-essere verso un ben-essere. In realtà nella dimensione esistenziale dell’individuo, le cose stanno diversamente. Quale individuo sceglierebbe infatti di finire la propria vita vagando senza meta in un deserto, rinunciando alle certezze della dimensione egiziana, dura, non gradevole, ma quantomeno conosciuta? In Egitto l’israelita è certo sfruttato, ma nutrito in quanto c’è bisogno del suo lavoro, perché costituisce comunque una risorsa. Ma che valore avrà la sua vita dal momento che, seppur libero, vagherà nel nulla fino a spegnersi in questo nulla? Chi sceglierebbe davvero il peso della responsabilità avendo la possibilità di restare nella più totale neutralità?
E’ per questo che gli israeliti passeranno una buona parte del loro peregrinare nel deserto rimpiangendo l’Egitto. Perché questa nuova dimensione non porta loro un miglioramento qualitativo reale, ma solo un cambiamento degli equilibri, cambiamento che è fonte di soddisfazione per alcuni aspetti, ma di profonda frustrazione per altri.
Ed è riflettendo a questo che il senso del Passaggio/Salto/Pesach e dei suoi insegnamenti appare con maggiore chiarezza.
Intanto, il fatto che l’esistenza umana è necessariamente composta da una lunga serie di passaggi e di salti, ma questi sono raramente frutto di una scelta, più spesso nascono da un’imposizione proveniente dall’esterno, come suggerisce il passo וַיְהִ֗י בְּשַׁלַּ֣ח פַּרְעֹה֘ אֶת־הָעָם֒, “E fu, quando il Faraone cacciò il popolo..”[Es. 13:17]. Nessuno sceglie davvero liberamente il Passaggio/Salto/Pesach.
Tali passaggi non sono quindi forse da intendere in senso qualitativo. Non si passa mai da un mal-essere a un ben-essere, ma semplicemente ci si adatta passando fra dimensioni diverse, i cui vantaggi e svantaggi, gioie e sofferenze, fondamentalmente si equivalgono.
Per questa ragione, avendo un’idea seppure imprecisa di ciò che si è perso ma inesistente di ciò che sarà, tendiamo a vivere portando sulle spalle il peso dei lutti successivi, dovuti all’allontanamento di quel che è stato e che non sarà più, ma il cui vuoto rimarrà presente in ogni dimensione futura. Nella vicenda di Pesach questo aspetto è sottolineato dal fatto che la morte accompagna pesantemente tutto l’episodio, prima la morte dei primogeniti, poi quella degli egiziani durante il passaggio del mare. L’estrazione dalla dimensione egiziana avviene in mezzo a un mare di cadaveri, e questo peso non può certo essere cancellato da quel che segue. Ma così è, perché per vivere siamo obbligati ad accettare che le cose periscano, fuori e dentro di noi. Ed è spesso il nostro stesso vivere che le fa perire. Perchè vivendo creiamo necessariamente anche morte. “Nel momento stesso in cui viviamo, cresciamo in noi la morte” (Murakami, Norvegian Wood).
Il Passaggio/Salto/Pesach che celebriamo quindi in questa notte di luna piena, che già sappiamo cederà presto il posto a un’oscurità totale, è semplicemente la facoltà umana di camminare su un percorso spesso accidentato dove le circostanze esteriori lo forzano a passare da una dimensione all’altra, a saltare fra esse talvolta con coraggio, più spesso con riluttanza, ma senza che questo comporti fondamentalmente un miglioramento, né d’altronde un peggioramento.
Quello che celebriamo è quindi il Passaggio/Salto/Pesach in se stesso, perché nell’interstizio fra le dimensioni, nel punto esatto della loro giuntura, nel momento esatto del confine, ci è dato di leggere, talvolta, un insegnamento. Per farlo, siamo obbligati per un momento a rimanere in instabile equilibrio in questo passaggio stretto, come fra le due ali del mare aperto, senza più cognizione reale di quel che è stato, e privi di conoscenza di quel che ci attende. “Don’t dwell on what has passed away, or what is yet to be » [L.Cohen, Anthem]. E’ proprio in quella fase di coscienza legata agli stadi liminali, in questo confine che è “il luogo più fecondo per la conoscenza” [P.Tillich, Sul confine] che ci è possibile talvolta intravedere frammenti di senso.
“Cammino lungo la riva della coscienza, dove le onde si muovono in un flusso e riflusso continuo. Quando arrivano, lasciano dietro di sé delle scritte che subito l’ondata successiva cancella. Cerco di leggerle in fretta, nel breve intervallo fra un’onda e l’altra. Ma non è facile. Prima che faccia in tempo a leggere, arriva una nuova onda a cancellare tutto. Nella coscienza rimangono solo indecifrabili frammenti di parole.” [H. Murakami, Kafka sulla spiaggia]
Non è quindi un passare da un male a un bene, dall’oscurità alla luce, dalla sofferenza alla gioia, che viene celebrato a Pesach. Il Passaggio/Salto/Pesach è quello fra diverse onde. Nessuna onda è qualitativamente migliore dell’altra, ma nel momento del passaggio dall’una all’altra vi è un momento di senso possibile. Un istante molto breve, fra il momento in cui una scritta appare e quello successivo in cui essa viene immediatamente cancellata.
Moadim l’Simchà, Chagim uZemanim l’Sasson
IL RISCHIO (2/4/17)
Il passaggio dal libro di Shemot/Esodo a quello di Vaiyqra/Levitico è sempre sorprendente ogni volta che lo si affronta all’interno del ciclo delle letture sinagogali. Si lasciano da parte i grandi segni e prodigi, le piaghe, l’apertura del mare, la rivelazione al Sinai, per entrare in una dimensione di spiritualità quotidiana e costante, espressa nel culto regolare e ripetitivo del Mishcan Ohel Moed, il Santuario dell’incontro.
Questo cambiamento di tono e d’atmosfera può essere compreso solo ripercorrendo le diverse fasi del racconto biblico, che mostrano la natura dei due testi.
Il popolo d’Israele nasce come gruppo che è prima di tutto oggetto d’abbandono. Gli israeliti sono stati infatti prima accolti e nutriti dall’Egitto, ma poi ignorati e sfruttati da “Un nuovo re […] che non conosceva Yosef”[Es. 1:8]. Avendo perso ogni fiducia, sono stati poi adottati da Moshè che diviene ai loro occhi il responsabile del loro nascere e del loro divenire. Non a caso Moshè tempo dopo dirà: “Ho forse io concepito questo popolo? Forse io l’ho partorito?” [Num. 11:12] E’normale che essi non possano immaginare di continuare senza di lui. Grazie alla presenza di Moshè, e della Trascendenza che egli rappresenta, essi passano «dalla schiavitù alla libertà, dall’angoscia alla gioia, dal lutto alla festa, dalla tenebra a grande luce, e dalla sottomissione al riscatto»(Haggadà di Pesach).
Ma quando la loro guida, che essi percepiscono come il loro genitore adottivo oltre che educatore, scompare sulla montagna per incontrarsi con la Trascendenza, gli israeliti sono terrorizzati all’idea di perderlo. Egli rappresenta tutto quello che hanno, è il simbolo della loro libertà ma soprattutto, una volta usciti dalla dimensione egiziana, è l’unica fonte di ispirazione che essi abbiano e che possa indicare loro una direzione. E’ Moshè che ha dato un senso alla loro esistenza, ed essi non sono in grado di concepirsi senza rispecchiarsi in lui.
Sentendosi scivolare nel baratro dell’abbandono il popolo chiede ad Aaron, il fratello di Moshè, di aiutarlo a costituire una qualche entità che possa sostituire la loro guida perduta: “Alzati, fai per noi delle Forze che marcino davanti a noi, perché quel Moshè che ci ha fatti salire dalla terra di Mitsraim, non sappiamo che ne è stato.”[Es. 32:1] Queste forze saranno incarnate dal vitello d’oro, sostituzione della presenza di Moshè, che però a differenza di quest’ultimo sarà un simulacro controllabile e prevedibile, che mai si allontanerà, mai li abbandonerà e costituirà quindi un rischio decisamente minore.
Il bilancio di questo episodio sarà pesantissimo, le tavole della Legge saranno distrutte [Es. 32:19], e tremila persone troveranno la morte [Es. 32:28]. E’ in questo modo che si conclude l’epoca della presenza. Shemot/Esodo è infatti il libro della presenza, che si esprime in momenti rivelatori che lasceranno tracce importanti e durevoli, ma anche, come abbiamo visto, ferite profondissime. Esso rappresenta l’eccezionale, l’infinito che irrompe nel finito con energia e violenza, la sospensione e l’alterazione di ogni equilibrio, e la presenza costante e chiaramente percettibile della Trascendenza e del suo rappresentante, Moshè. Si tratta di una dimensione necessariamente straordinaria e irripetibile, diversamente da quella di Vayiqrà/Levitico, che costituisce la risposta umana al silenzio che la segue, che fa di esso il libro dell’assenza.
Il quotidiano descritto dall’inizio di Vayiqrà/Levitico, è infatti pensato per essere oggetto di ripetizione, curata, attenta, rassicurante. Perché è il prodotto del senso di smarrimento e di vertigine profonda che si accompagna al vuoto e al lutto di una presenza. Con la conclusione di Shemot/Esodo si chiude infatti l’epoca delle grandi rivelazioni, ma anche quella delle grandi presenze. Quella di Moshè, di cui gli israeliti hanno compreso che non sempre potrà essere presente per loro, ma anche quella della Trascendenza, che cessa di manifestarsi in modo evidente come era avvenuto fino a quel momento. Da quel momento, la loro esistenza spirituale si articolerà intorno al Mishcan Ohel Moed, dove gli israeliti avvicineranno ogni giorno e ogni sera un Tamid, un atto di presenza perpetua e insistente, la cui costanza andrà a sostituire la presenza costante e sperata della Trascendenza, a cui essi avevano anelato. Ma sarà proprio questo inguaribile sentimento di abbandono a rendere impossibile la realizzazione del progetto di quella generazione, che dovrà perire nel Midbar/deserto, luogo dell’assenza della parola. Il Mishcan Ohel Moed, che custodisce la memoria dei momenti irripetibili della Rivelazione, sarà il luogo presso cui essi mediteranno su quanto questa rivelazione ha portato loro. Da un lato la ricchezza di una direzione e di una responsabilità derivanti dalle presenze di Moshè e della Trascendenza, dall’altra però lacerazione, trauma e sofferenza derivanti dall’insopportabile solitudine che inevitabilmente si accompagna all’assenza. Peraltro è ammirevole come nel ciclo annuale delle letture sinagogali, l’inizio di Vayiqrà/Levitico, libro dell’assenza, sia letto sempre in concomitanza con la festa di Pesach, che celebra invece la presenza di Moshè e della Trascendenza nella vicenda dell’uscita dall’Egitto. Quasi a sottolineare quanto nell’esperienza umana queste dimensioni siano inseparabili e complementari, l’una comportando necessariamente l’altra, in un modo talvolta doloroso.
O, per dirla con Saint-Exupéry:
«Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo.
Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza.
Farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno.
Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza … E’ dal mio rischio di pena che conosco la mia gioia».
RAISE A TENT OF SHELTER NOW (5/3/17)
L’ultima parte del libro di Shemot/Esodo è consacrata alla costruzione del Mishcan Ohel Moed, la residenza/tenda dell’incontro, che accompagnerà le peregrinazioni degli israeliti nel deserto.
Il Mishcan Ohel Moed è un tenda i cui elementi sono destinati a essere smontati e poi nuovamente assemblati ad ogni tappa del viaggio. Viene elaborato ai piedi del Sinai dopo la Rivelazione, e la sua funzione è proprio quella di essere una sorta di Sinai portatile che protegge nel suo seno l’eco dell’incontro fra l’uomo e la Trascendenza, giacché nella Tenda tale eco continua a vibrare fra le due figure umanoidi scolpite, le quali si contemplano all’interno (Es. 25:22).
Ma un aspetto particolare di tutto questo è che il servizio religioso all’interno del Mishcan è finanziato attraverso un contributo individuale di mezzo shekel, che era la moneta di riferimento in epoca biblica (Es. 30:11-16).
Certamente l’idea di un contributo di mezzo shekel, e non di uno intero, richiama l’incompiutezza di ognuno, e la necessità dell’incontro con l’altro affinché una pienezza sia raggiunta.
Ma un altro aspetto mi ha sempre lasciato perplesso, ossia il fatto che tale contributo fosse versato solo dagli individui adulti. Questo mi è sempre parso importante, senza però capirne davvero il perché. Meditando su questo, mi è sovvenuto un verso dei Salmi: “I sacrifici di Elohim, interiorità spezzata.” (Sal. 51:19). E infatti era proprio il culto sacrificale a essere sostenuto dallo Shekel spezzato e dimezzato, e in particolare il Tamid, il “perenne/insistente/regolare/eterno” avvicinamento sacrificale biquotidiano.
Un’interiorità spezzata. Uno shekel spezzato…
Secondo il testo biblico, l’età minima per versare il contributo corrispondeva a quella della coscrizione. Solo chi andava in guerra poteva quindi contribuire al servizio dell’incontro perpetuo attraverso il mezzo shekel. Come se questo mezzo shekel fosse simbolo della lacerazione e della rottura interiore che solo chi ha incontrato la morte può conoscere. In senso più generale, è come se solo chi ha vissuto abbastanza per vedere frustrati e talvolta distrutti sogni, illusioni, ideali, e talvolta anche vite, avesse la maturità necessaria per poter costruire davvero. Qualcosa del genere è evocato da G. Bassani nel Giardino dei Finzi Contini: “Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta.”
Quel contributo però, frammentato e incompleto, è l’unico possibile e significativo. Forse perché quel frammento di sé rimasto e salvato, per quanto diminuito e spezzato, è portatore di una densità, di un peso e di una verità che non sono raggiungibili altrimenti. E solo questo contributo, prezioso perché frutto di una lotta e di un lavoro interiori profondi e penosi, permette al Mishcan, anch’esso strutturato in modo tale da essere di volta in volta spezzato e poi ricomposto in modo analogo alle persone che vi contribuiscono, di conservare la sua funzione di rifugio della Parola, dove le dimensioni della lacerazione e dell’integrità, dell’infinito e del finito si incontrano, e intrecciano misteriosamente le loro essenze.
Ma non dobbiamo dimenticare che il Mishcan rimane fondamentalmente un piccolo Sinai, lo scrigno che protegge l’eco della Parola, idea che richiama quella dello Zeltwort, la parola-tenda di Celan. Affinché la Tenda del rifugio possa essere realizzata e mantenuta, è quindi necessario che prima di tutto abbia luogo una Rivelazione, una porta aperta verso una realtà celata e preziosa, un fenomeno misterioso e unico che non può essere compreso, ma solo celebrato, amato, protetto.
Questa Rivelazione è però dipinta nella narrazione biblica come un fenomeno avvolto nel mistero, a cui neppure è chiaro chi prenda parte. E’ quindi un fenomeno relegato alla sfera dell’impossibile o quanto meno dell’inaudibile, che apre le porte all’elaborazione del Mishcan, il rifugio del vivibile nell’improbabile, del percettibile nell’indicibile.
Ma va da sé che tale realizzazione non può che essere lavoro continuo, instancabile, di costruzione e decostruzione costanti. Dove solo chi ha pagato il tributo più elevato e lasciato una parte di sé, solo chi ha coscienza delle “ore svanite, le persone morte o scomparse, i pensieri che non torneranno più” (H. Murakami, Norwegian Wood), può avvicinarsi con quel frammento di sé rimasto e prezioso, perché integro e pieno, e contribuire alla costruzione della Tenda, anche laddove i fili siano spezzati. E nel suo servizio, giorno dopo giorno, offrire un Tamid che sia un costante tendere verso una pienezza, una perennità e un’eternità possibili.
L’ALIENO (16/02/17)
Nel capitolo 18 del libro di Shemot/Esodo, la narrazione del dono della Torah a Israel è preceduta dall’arrivo di Yitrò, sacerdote pagano che, avendo sentito parlare dell’accaduto, raggiunge il popolo ebraico appena uscito d’Egitto. Egli consiglia Moshè su come rimodellare l’organizzazione legislativa di Israele, probabilmente strutturata su un modello egiziano. Questo avviene immediatamente prima del dono della Torah, quasi come se creasse il substrato necessario al dono della stessa, aprendo a Israele la strada di una diversa comprensione di sé e della necessità di costruirsi su basi nuove rispetto ai modelli acquisiti.
Considerando il fatto che il racconto della rivelazione inizia in modo inequivocabile con il capitolo 19, i maestri avrebbero potuto benissimo includere la vicenda di Yitrò nella sezione precedente, Beshallach. Invece scelsero di dare alla sezione il nome di Yitrò, facendola introdurre da questo incontro con il sacerdote pagano, illuminato ma estraneo consigliere. E’ spesso detto, peraltro, che Yitrò si converte all’ebraismo, laddove nulla del genere è esplicitato dalla Torà, anzi, il valore del suo ruolo è proprio quello di essere un completo outsider, un elemento alieno al sistema, che tale rimane fino in fondo.
Questo ricorda intanto che esiste un popolo d’Israele, con un suo sistema legislativo e quindi una sua identità, prima dell’arrivo della Torah, e quindi che la dimensione religiosa è un aspetto importante dell’identità ebraica, ma non l’unico, né il primo a svilupparsi.
Ma soprattutto, questo episodio ricorda che l’insegnamento e l’apprendimento sono possibili solo quando vi è in essi la possibilità di un contributo essenziale da parte di ciò che è alieno al sistema. Giacché gli elementi interni del sistema non potranno che agire nella ripetizione e nella conferma di cose già dette e già pensate, in un costante riproporsi dell’identico. Ma insegnare non può mai corrispondere a una conferma e a un consenso, al contrario deve sempre realizzare un dissenso e uno scarto, creare una dissonanza e non una consonanza, una differenza e non un’eguaglianza. Un insegnamento che conforti è senza dubbio rassicurante, ma lo scopo dell’insegnamento non è rassicurare. E’anzi quello di far vacillare le certezze, ricordando che nessun sistema, nessuna ideologia, nessuna corrente di pensiero, avrà mai tutte le risposte. Ma questo, solo l’alieno potrà mostrarlo in modo convincente. Solo l’alieno potrà affermare senza bisogno di confermare necessariamente.
Nella narrazione biblica, la Torah, peraltro voce di ciò che per antonomasia è anch’esso alieno alla dimensione umana, viene formulata solo dopo questo episodio, quasi a ricordare che l’accedere all’apprendimento significa necessariamente saper fare posto alla differenza, all’altro nello stesso, aprendo a una chiamata infinita che non potrà mai ridursi alla ripetizione e alla conferma dell’uguale.
06/02/17
SI TU VIENS, PAR EXEMPLE, A QUATRE HEURES DE L’APRÈS-MIDI, DÈS TROIS HEURES JE COMMENCERAI D’ÊTRE HEUREUX
Già ad Avraham la Trascendenza aveva detto: “Sapere sappi che stranieri saranno i tuoi discendenti in una terra non loro, e li asserviranno e maltratteranno per quattrocento anni.”[Gn. 15:13]
Molto tempo dopo, nel momento in cui l’Egitto vacilla, indebolito e roso dalla sua inadeguatezza morale, Moshè annuncia “Così parla YHVH: Verso la metà della notte io uscirò nel paese d’Egitto…”[Es. 11:4].
E’ a quel punto che viene richiesto ai figli d’Israele di organizzare il computo dei mesi a partire dalla nuova luna di quel mese, Nissan. Gli israeliti inoltre dovranno preparare un animale che terranno in serbo per tre giorni a partire dal decimo giorno del mese, in modo da immolarlo il quattordici Nissan verso il crepuscolo [Ibid. 12:1-6].
A quel punto avviene quanto annunciato in precedenza: “E fu alla metà della notte, che YHVH colpì ogni primogenito nella terra d’Egitto” [Ibid. 11:29]
Questo segno di cambiamento, la morte dei primogeniti, è spesso compreso in modo errato. Non sono i primogeniti egiziani ad essere colpiti, ma tutti, anche gli israeliti e gli stranieri, come il testo dice esplicitamente. Perché l’episodio va a sancire la fine del diritto di primogenitura, uno dei grandi temi di Bereshit/Genesi, ma significa anche la fine della supremazia dell’Egitto, la superpotenza incontrastata che costituisce in senso lato il grande primogenito delle nazioni. E, siccome il segno di un cambiamento radicale non lascia nulla intatto, e non risparmia nessun aspetto di una vita, per questo è fondamentale che tutti in Egitto, senza eccezioni, siano colpiti. Perché il segno della relazione con la Trascendenza che deve nascere da questa ecatombe è quello del rifiuto di qualsiasi istituzione che appiattisca e riduca il valore degli individui riducendoli a ruoli e tempi acquisiti in modo automatico e impersonale. L’aspetto temporale è di particolare peso, giacché il primogenito è semplicemente colui che nasce per primo, destinato a un ruolo importante, ma senza che ci si possa davvero attendere nulla di preciso da lui, siccome al momento della nascita nulla di lui è conosciuto. Il tempo e l’attesa, quindi, sono due aspetti centrali di questo episodio. Il tempo del primogenito è soppresso a favore di un tempo diverso, preparato, atteso. Perché nessuna nascita è casuale…
Quindi questo segno ha un altro valore profondo, quello di una relazione strutturata attraverso una costruzione psicologica che si basa sull’attesa di tempi ben definiti. La precisione con cui viene annunciata ad Avraham la durata dell’asservimento e quindi la venuta della liberazione, l’accuratezza di Moshè nell’annunciare l’ora di quel che accadrà, sono elementi fondamentali. Perché gli israeliti devono poter nutrire l’aspettativa di ciò che avverrà, e sarà questa aspettativa a creare il legame che essi svilupperanno con la Trascendenza. Questo aspetto sarà fondamentale nel loro cammino di liberazione, perché la scelta di sviluppare un legame di intimità e di responsabilità è di per sé segno di libertà.
L’aspettativa, l’attesa,sono quindi elementi portanti di questo cammino. Il problema è che l’aspettativa talvolta può trasformare le nostre vite in un inferno, perché raramente la realtà corrisponde alle aspettative. Eppure, nella relazione, l’assenza di aspettative non è un’opzione. Se da un lato una relazione non può dipendere esclusivamente dalla soddisfazione di ogni aspettativa, essa non può però neppure svilupparsi ed esistere in assenza di questo elemento centrale.
Per questo le relazioni sono fonte di timore, perché tutti temiamo la frustrazione delle nostre aspettative. Ma anche perché paventiamo la responsabilità generata dall’esistenza stessa del legame relazionale.
Eppure, anche la delusione delle aspettative è parte di una relazione. Perché una relazione è anche questa distanza incolmabile fra l’attesa e la realizzazione, fra l’aspettativa e la soddisfazione. E quanto più il legame è profondo, tanto più questo elemento, questo spazio, è pronunciato. Per questo amare significa necessariamente attendere, essere attesi, deludere, essere delusi. Quando gli israeliti rifiutano di aderire al progetto di Moshè, è proprio per timore di intraprendere la relazione con la Trascendenza, per paura delle aspettative, del legame, e della responsabilità che questo genererà necessariamente. E quando Moshè dice loro: “Alla metà della notte, nel momento più oscuro, in cui la memoria della luce passata è andata ormai persa, e la possibilità di un’alba futura sembra impossibile, proprio in quel momento riceverete calore, luce e conforto”, come non avere timore di questa aspettativa, della sua possibile delusione, ma anche della responsabilità che essa genera?
Eppure, da quel momento in poi, tutta la cultura ebraica sarà costruita su questo. Su questo costante attendere ed essere attesi. Perché in questo prepararsi a un tempo di relazione vestendo il proprio cuore si cela uno degli aspetti più belli e preziosi dell’esistenza umana.
« Si tu viens, par exemple, à quatre heures de l’après-midi, dès trois heures je commencerai d’être heureux. Plus l’heure avancera, plus je me sentirai heureux. À quatre heures, déjà, je m’agiterai et m’inquiéterai; je découvrirai le prix du bonheur! Mais si tu viens n’importe quand, je ne saurai jamais à quelle heure m’habiller le cœur. »
« Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore”
ERETICI FRAMMENTI (1/2/2017)
(HIGHLIGHTS FROM GENOA’S CONCERT)
Salomone Rossi compose all’alba dell’epoca barocca musica sinagogale in uno stile polifonico estraneo alla tradizione ebraica, e appannaggio di quella cristiana.
Per questo fu considerato da molti, in ambito sia ebraico che cristiano, come un eretico.
Ma ogni eresia è un frammento imperdibile di una verità inesistente.
ENSEMBLE CHIAROSCURO
Fabrizio Haim Cipriani, violin and conductor
Elisa Franzetti, soprano
Paola Cialdella, mezzo-soprano
Matteo Armanino; bass
Antonio Fantinuoli, viola da gamba and cello
Elisa La Marca, theorbo
Live recording in Genoa (Italy), Palazzo Tursi, January 11th 2017
ETERNO RITORNO (19/01/2017)
“Elohim disse a Israel in una visione notturna: «Yaakov, Yaakov!». Rispose: « Ecco me!». Riprese: «Io sono Forza, il Dio di tuo padre. Non temere di scendere in Egitto, perché laggiù io farò di te un grande popolo. Io scenderò con te in Egitto e salire anche io ti farò salire. Yosef poserà la mano sui tuoi occhi». [Gen. 46:2-4]”
“E Yaakov visse nel paese d’Egitto diciassette anni … [Gen. 47: 28]”
E’ la Trascendenza a rassicurare il vecchio patriarca riguardo all’opportunità di scendere nella terra delle strettezze, Mitsraim/Egitto, dove lo attende l’amato figlio Yosef.
Notiamo però che non è Israel a essere chiamato, bensì Yaakov, come a sancire l’incompiutezza, o l’impossibilità, di accedere alla dimensione di Israel che pure egli aveva raggiunto molti anni prima.
E infatti, sorprendentemente, il testo ci dirà poi che non è Israel a vivere in Egitto i suoi ultimi anni, ma Yaakov. La frase “Yosef poserà la mano sui tuoi occhi” prende allora una sfumatura diversa da quella comunemente intesa, ossia che sarà Yosef ad assistere il vecchio padre sul suo letto di morte. Forse va intesa nel senso che il fatto di ritrovare Yosef sarà ciò che permetterà a Yaakov di trascorrere gli ultimi anni della sua dura esistenza al riparo dalla realtà, risparmiandosi di contemplarla davvero. E il fatto che il testo dica “Yaakov visse nel paese d’Egitto diciassette anni” si riferisce forse alla stessa cosa. Come se il ritrovare Yosef riportasse il vecchio patriarca a un’epoca lontana della sua vita, l’epoca in cui i suoi figli ancora non si erano lasciati andare all’odio e alla violenza, i giorni in cui l’amata Rachel era ancora al suo fianco. Era l’epoca in cui egli era ancora Yaakov, e non Israel. L’Egitto diviene la culla di questa dimensione irreale in cui l’uomo si rinchiude pur di non dover fare i conti con il “dopo”. Se da un lato il fatto di aver ritrovato Yosef fu senza dubbio fonte di profonda gioia per Yaakov, dall’altro doveva essere senza dubbio penoso il constatare quanto il figlio prediletto fosse cambiato, elevato al rango di dignitario egiziano, con un nome egiziano e probabilmente uno stile di vita coerente con tutto ciò. Il vecchio si ritrova quindi in terra straniera, in presenza del figlio prediletto, colui che aveva visto come il suo erede spirituale, di fatto divenuto estraneo alla famiglia ma anche alla sua appartenenza culturale e religiosa. Inoltre ha la coscienza che gli altri figli non sono minimamente all’altezza di portare avanti il suo progetto. Non può quindi che cedere alla tentazione del “prima”, lasciandosi trasportare altrove, in un passato idealizzato, e lì trascorrere, da Yaakov e non da Israel, i suoi ultimi anni.
La realtà però è che questo “prima” è totalmente illusorio. Per questo la Torà si apre con la lettera ב , la beth di Bereshit, chiusa su tutti i lati escluso quello di sinistra, quello del seguito e dell’a-venire, chiudendo le porte di un possibile ritorno a un “prima”. Perché vivere significa necessariamente essere confrontati con avvenimenti che alterano radicalmente la nostra relazione con noi stessi e con gli altri. Spesso si manifesta in noi allora la tentazione di rifugiarci in un “prima”, come fa Yaakov, che costituisce una possibilità teorica reale, ma che è portatrice di un rischio, che vediamo descritto nella conclusione di Bereshit/Genesi. Yaakov chiede di essere inumato nel sepolcro dei patriarchi, in terra di Canaan [Gen. 49: 29:32]. Le sue volontà saranno rispettate, dopodiché i figli torneranno alla terra delle strettezze, Mitsraim/Egitto, come leggiamo all’inizio di Shemot/Esodo: “Ed ecco i nomi dei figli d’Israel che vengono in Egitto.” [Es. 1:1]. Notiamo il verbo che esprime un’azione continua, come ripetitiva. Discesa verso Mitsraim, incapacità di assumere le conseguenze del “dopo”, rifugio in un “prima” illusorio, quindi risalita verso questa dimensione mitica, e poi ancora discesa. Un processo ciclico, una sorta di eterno ritorno, che è la radice della schiavitù egiziana.
Questo è un altro degli insegnamenti di Bereshit/Genesi, il libro degli inizi. A rispondere hinneni, “ecco me”, alla chiamata della Trascendenza d’altronde non è Israel, nome che significa anche “diritto in direzione di”, ma Yaakov, l’uomo del passato, il cui nome significa anche “contorto”, ossia piegato su se stesso, all’indietro. Poche cose sono ardue quanto rispondere hinneni alle sfide dell’esistenza. Le occasioni di farlo davvero poi, sono pochissime nell’arco di una vita. Talvolta crediamo di reagirvi adeguatamente, ma siamo in errore. Perché spesso non abbiamo gli strumenti per comprendere le reali implicazioni di questo “ecco me”, di questo esporci interamente, senza riserve e senza difese, a un “dopo” al quale non eravamo minimamente preparati. Non che questo derivi necessariamente da una nostra mancanza. Il fatto che la Trascendenza chiami Yaakov, e non Israel, a scendere in Egitto, sembra implicare che questo “essere altrove”, questo essere inadeguati sia quasi inevitabile, come se fossimo chiamati all’ineluttabilità di un’inadeguatezza ontologica. A quel punto il fatto di rispondere in modo appropriato diventa solo una direzione possibile, un tendere -verso, mai una possibilità alla nostra portata reale.
Ma l’alternativa a questo è vivere nell’illusione dell’eterno ritorno a una dimensione che non esiste più. Uscire da Mitsraim costituirà quindi anche uno spezzare questa catena di ripetizione compulsiva per permettere a un nuovo “ecco me” di sbocciare. Non sarà più l’hinneni di Yaakov ma quello di Israel, di quella dimensione in grado di staccarsi dall’attaccamento a questo “prima” illusorio, per accettare e abbracciare l’incertezza e l’impermanenza di un a-venire non necessariamente radioso, ma quantomeno più vero e profondo.
INVECCHIARE, DISTILLARE (12/1/2017)
“Io sono Yosef vostro fratello, che avete venduto in Egitto. Ma ora, non abbiate pena e non si infiammino i vostri occhi per avermi venduto qui, perché l’Elohim mi ha mandato davanti a voi per dare vita” [Gn. 45:5]
Verso la conclusione, il libro di Bereshit/Genesi, che è il libro degli inizi, ci offre una potente riflessione su ciò che iniziare può davvero significare.
Dopo tanti anni, Yosef rivela la sua identità ai fratelli che in passato lo avevano quasi ucciso e poi venduto. La scena è densa di tensione e inquietudine. I fratelli, a fiato sospeso, si chiedono quali saranno le mosse di quello che nel frattempo è diventato un potente ministro egiziano.
Ma la prima mossa di Yosef è di tipo interpretativo, volta a rileggere la realtà del loro tragico passato comune. Quando evoca l’Elohim come origine degli avvenimenti, Yosef si riferisce forse all’attributo della giustizia generalmente evocato da questo appellativo, quasi a riconoscere in modo implicito una sua parte di responsabilità nell’odio che i fratelli avevano sviluppato nei suoi confronti. Non che questo diminuisca la loro responsabilità, che Yosef afferma prima di tutto. Ma non tutto si riassume in questa responsabilità. Yosef è una vittima, ma ha anch’egli una parte di responsabilità nel non aver saputo moderare il suo egocentrismo e nell’aver lasciato il padre nutrirlo in maniera esasperata e dimostrativa.
Yosef, certo, avrebbe tutte le ragioni di vendicarsi nei confronti dei fratelli, ma sceglie di interpretare altrimenti gli avvenimenti, perché invecchiare gli ha dato la possibilità di proiettare una luce diversa sul passato, e anche su se stesso. Ha atteso per farlo, perché non a ogni fase della vita si è in grado di vedere e ammettere la propria verità interiore. Ma anche perché ha avuto bisogno di un elemento scatenante, e infatti non ci è dato di sapere se sarebbe stato in grado di farlo se i fratelli non si fossero mai recati in Egitto. Yosef inizia affermando “Io sono Yosef vostro fratello”. Sapendo che nel frattempo lui è divenuto egiziano assumendo il nome di Tsafnat Paneach, possiamo capire che non lo dice solo per i fratelli, ma anche per sé. Perché solo ora, a quello stadio della vita, è in grado di guardarsi davvero e di contemplare una serie di cose
Vi è però un paradosso. Da un lato invecchiare permette una lucidità ben maggiore e uno sguardo più determinato e sicuro sulle cose, facoltà che danno la possibilità di distillare ciò che è essenziale. Ma non solo. Invecchiare permette anche la facoltà di aprirsi alla verità che altri sanno distillare in noi, ed è per questo che Yosef ha bisogno di confrontarsi con i fratelli per potersi rivelare a se stesso prima ancora che a loro, e per poter accogliere la sua verità, nel senso greco di Aletheia, il dis-velamento di una persona a un’altra, o a se stessa, in un atto distillatore di verità che esige dall’uomo una presa di coscienza (grazie a Haya B. per questa e mille altre ispirazioni).
D’altro canto, spesso invecchiando ci troviamo con esperienze e condizioni sedimentate che rendono ardua l’affermazione di quel che si è giunti a vedere come essenziale, e di viverlo con le sue eventuali conseguenze. Una cosa è vedere, altra cosa è reagire. Eppure, la facoltà di modellare una certa visione di chi abbiamo creduto di essere, di chi siamo davvero, e di come potremmo essere, è fondamentalmente l’unico potere che abbiamo davvero.
Yosef reagisce elaborando una visione creativa del passato, una scelta che gli permette di vedere le proprie inadeguatezze, e anche quelle dei suoi fratelli, come portatrici di una vita possibile, e non del contrario. Certamente per lui le due opzioni più ovvie a quel momento sarebbero o quella di cancellare la propria vita precedente, lasciando andare i propri fratelli che potevano essere visti come non meritevoli della sua attenzione, oppure quella di lasciare andare la sua vita attuale di governatore egiziano, tornando alle proprie radici. Ma l’ovvietà non rende giustizia alla complessità della vita, e Yosef sceglie coraggiosamente di integrare queste due realtà, da un lato scegliendo di continuare il suo operato in Egitto, dall’altro chiedendo alla sua famiglia di trasferirvisi. Questo aspetto è in particolare problematico quando sappiamo che tale scelta permetterà sì la ricomposizione della famiglia, ma genererà anche la schiavitù a venire. Yosef non conosce il futuro, ma è senza dubbio cosciente dei rischi di questa sua scelta così ardita, la scelta di non fuggire, che porterà vita ma anche sofferenza, e poi ancora vita.
Tutto ciò ci fa riflettere sul fatto di invecchiare e di acquisire questa facoltà di distillare, sentendosi però talvolta come impossibilitati a reagirvi. Gli inizi, suggerisce la conclusione di Bereshit/Genesi, non si situano sempre dove li immaginavamo. A volte ci colgono di sorpresa in punti diversi del nostro cammino. Questi inizi ci colgono impreparati e ci costringono a un dis-velamento che modifica per sempre lo stato delle cose. E sono per questo più difficili, più perigliosi, ma forse anche infinitamente preziosi.
TRA VENT’ANNI (5/1/2017)
“E il soffio di Yaakov prese vita.” [Gen. 45:27] Così la Torà descrive la condizione interiore del vecchio patriarca nel prepararsi a riabbracciare il figlio Yosef, che aveva creduto morto per ventidue anni.
A proposito di questo “prendere vita” un passo dello Zohar suggerisce che quando Yaakov ritrovò Yosef, egli provò per la prima volta una sensazione di pienezza che gli era mancata fin dal giorno in cui decenni prima, presso un pozzo, aveva incontrato Rachel, la donna che tanto avrebbe amata.
In quel lontano momento Yaakov era in fuga dalla casa natale, dove si era attirato le ire del fratello a cui aveva sottratto la benedizione paterna. Possiamo solo immaginare l’impatto emotivo dell’incontro con Rachel in un Yaakov solo e fuggiasco, fragilizzato dalla violenza che aveva fatto irruzione nella sua vita. Quel giorno, in cui aveva stretto forte a sé Rachel piangendo, doveva essere stato per lui come l’alba luminosa di una nuova era. Ma a questo giorno erano seguiti momenti di grande difficoltà. Quattordici anni di lavoro per poter sposare quella donna che amava, quella donna che poi avrebbe visto soffrire, frustrata e infelice per la sua impossibilità di avere figli, e che finirà tragicamente per morire proprio partorendo. E poi era esplosa la rivalità violenta fra i figli, che avrebbe portato al dramma della scomparsa di Yosef, ufficialmente dovuta alla morte accidentale, ma che senza dubbio Yaakov sentiva essere legata in qualche modo ai fratelli, presso i quali Yosef era stato inviato in quel tragico giorno. L’esistenza di Yaakov, dopo quel momento magico dell’incontro con Rachel, e forse in parte anche a causa di questo incontro, diventò oscura e faticosa. Per questo egli dirà al Faraone che gli anni della sua vita erano stati pochi e tristi [Gen. 47:9]. Ma decenni dopo, il vecchio Yaakov ha la gioia insperata di riabbracciare Yosef, il figlio della defunta Rachel, che pare le assomigliasse tanto. Stringere fra le braccia Yosef dopo tanti anni di angoscia e smarrimento doveva costituire per Yaakov una reminiscenza dell’abbraccio di Rachel, la donna il cui amore lo aveva riscattato dalla sua condizione di solitudine e di paura nel fuggire dalla propria famiglia natale.
Mi chiedo cosa avrà sentito Yaakov nel momento in cui strinse il figlio e fu trasportato, al di là del tempo e dello spazio, al momento dell’incontro con Rachel.
Forse avrà percepito nella trama della propria vita l’esistenza di una sorta di disegno, e questo lo avrà in qualche modo rassicurato.
O forse avrà pensato che, in una vita in gran parte riempita di sofferenze, esistono rari momenti di sollievo che ne attenuano il peso, anche se talvolta essi arrivano tardi, troppo tardi. Ma forse, data la condizione umana, poter sperare in questo è già molto.
Vero è che spesso, confrontati alla difficoltà del vivere, siamo vittime di un’urgenza e di un’inquietudine che ci spingono a desiderare rapidamente risposte chiare e immediate che talvolta restano inaccessibili. “Telefonami fra vent’anni”, cantava il compianto Lucio Dalla. A volte, per intuire il senso del cammino di una vita, non occorre di meno.
THROUGH THE PANIC: IL VERO MIRACOLO DI HANUCCA (29/12/16)
Troppo spesso quando si parla di Hanuccà si mette in luce l’aspetto della lotta identitaria degli ebrei contro i siriani per affermare la loro autonomia religiosa. Ma si tende a dimenticare che si trattò anche di una guerra civile, che oppose i sostenitori di un ebraismo più conservatore, che si percepiva come autentico, a coloro i quali invece desideravano rinunciare ad alcuni aspetti della cultura ebraica giudicati come eccessivamente particolaristi, che impedivano l’integrazione degli ebrei nella società ellenistica. Questa lotta intestina è particolarmente interessante quando la leggiamo trasposta nella dimensione dell’individuo.
L’aspetto interessante è che i Maccabei, i puristi che vinsero questa battaglia ideologica, erano alla base una famiglia di sacerdoti, indi appartenenti alla tribù di Levi, che però dopo la vittoria fondò poi una dinastia di sovrani, gli Asmonei, laddove la legge ebraica prevedeva che solo i membri della tribù di Giuda potessero accedere al trono d’Israele. Questo abuso di autorità non fu loro mai perdonato dalla tradizione ebraica. Perché nell’incapacità di lavorare insieme ai loro antagonisti, di armonizzare la necessità di autoconservazione con la possibilità di accogliere e integrare in qualche modo le loro istanze, essi preferirono opporvisi duramente, combatterli ed eliminarli. In tal modo però finirono per violare i principi fondamentali che avevano voluto proteggere, e per tradire in tal modo il loro essere più profondo. E ciò accade ogni volta che un’azione violenta viene opposta a un’istanza di rinnovamento e di apertura.
I difensori di una certa idea di purezza, che percepivano le mutazioni proposte dai “progressisti” come una sorta di tsunami distruttore, finirono poi per incorporare anch’essi elementi di rinnovamento, ma solo dopo un sanguinoso conflitto, e le conseguenze furono terribili, giacché fu questo stato di cose a generare l’arrivo dei romani che più tardi avrebbero preso il potere e poi distrutto il Tempio.
Ciò che vale in ambito collettivo, avviene anche nella sfera individuale. L’essere umano tende a proteggersi dalle esperienze e dalle situazioni che possono costituire per lui uno tsunami spirituale che lo getterà in un baratro. Tale processo genera spesso un desiderio di rifiuto, un rinchiudersi nel proprio castello contrapponendosi al resto, provocando conflitti e sofferenze che inevitabilmente si ritorcono contro di noi, perché l’autoconservazione non è sufficiente alla vita. L’incorporare nuova energia, simbolizzata nel caso di Hanuccà dall’olio, comporta il rischio di un incendio, ma rappresenta anche un enorme potenziale. Il nostro maestro Nikolaus Harnoncourt z’l insegnava che la vita, come la musica, inizia ad acquistare senso solo quando si avvicina alla catastrofe. Quello che il Maestro chiamava scherzosamente catastrofe è l’inevitabile destabilizzazione che, lungi dal distruggerci, può portare alla crescita se accettata incorporando sapientemente elementi di questi potenziali tsunami spirituali che istintivamente tenderemmo a sopprimere. Queste sono le arti che permettono crescita e vita, mentre il rifiuto di rinnovarsi e rielaborarsi spesso oscura la possibilità di mettere al mondo un nuovo sé.
E’ forse questo il vero miracolo di Hanuccà. La facoltà di non lasciarsi ottenebrare e paralizzare dalla paura, ma di sorridere a queste sfide spirituali senza fuggire, di abbracciare con forza e fiducia il potenziale che esse ci offrono. E la luce proiettata su un sé nuovo che si lasci prendere per mano e accompagnare oltre il panico, verso il luogo dove saprà accogliere con amore un divenire e un aprirsi alla vita. “Dance me through the panic ’til I’m gathered safely in”, dice uno dei più bei testi di Leonard Cohen z’l.
Così possa essere per ognuno di noi וכן יהי רצון.
Hag Urim Sameach
ANOTHER TOPIC (et en bas traduction française de l’article de hier) 23/12/16
La Chanukia è pronta per dare luce. Domani dovrà essere posta se possibile davanti a una finestra. Ma perchè proprio lì?
Potrebbe essere solo un modo di mostrare la forza, la calma e la pace che dall’interno irradiano verso l’esterno.
Ma se invece questo venisse dalla necessità di guardare verso l’esterno senza lasciarci abbagliare dalla nostra luce?
Perché fuori, non c’è solo oscurità e freddo, ma ci sono altre forme di luce, che nell’accendere verso l’esterno saremo obbligati a vedere, e forse a invitare a raggiungere la nostra luce. Il Talmud (B. Shabbat 21b) dice che il limite orario per l’accensione è quello in cui i Tarmudaim, venditori stranieri di legno da ardere, si trovano ancora in strada. Nell’atto dell’accensione siamo quindi chiamati a ricordarci che questa nostra luce, quella proveniente dall’interno, non sarà mai sufficiente, e che ha bisogno di essere nutrita e alimentata anche da altre fonti. Per questo dobbiamo farlo quando i Tarmudaim circolano ancora. Perchè non dobbiamo credere, in un’immagine forse troppo semplicistica, che sia l’oscurità a stare fuori e la luce a stare dentro. Fuori vi è il Tarmudai, lo straniero la cui luce ed energia può arrichire e riscaldare la nostra luce interna. La luce più profonda non potrà che risultare dall’incontro di queste luci diverse e delle diverse sfumature di oscurità che esse portano dentro. Quando questo avverrà, quando le luci che proiettiamo verso l’esterno e l’energia che proviene da fuori si raggiungeranno e si uniranno, armoniosamente e rispettosamente, si creerà allora un abbraccio che sarà davvero fonte di benedizione, in cui perdersi e poi ritrovarsi. E allora, solo allora, sarà benedizione. וכן יהי רצון .
SE PERDRE, SE RETROUVER
(merci Claude pour la traduction)
Samedi soir nous rallumerons nos hanukkiot, avec une première timide lumière. Alors peut-être nous ajouterons plus de lumière, soir après soir. Pourtant, la bénédiction récitée au moment de l’allumage dit וְצִוָּֽנוּ לְהַדְלִיק נֵר שֶׁל חֲנֻכָּה, , c’est-à-dire “qu’il nous a attribué la responsabilité d’allumer une lumière pour hanukka”. La bénédiction parle donc d’une seule lumière, pas huit. Concrètement, cela signifie que celui qui ne parvenait pas à allumer toutes les lumières, aura rempli sa responsabilité même s’il en allume une seule tous les soirs. Mais les lumières ne doivent- elle pas progresser jusqu’à huit ?
Apparemment, arriver à huit feux est un supplément de beauté et de chaleur, mais tout le monde ne peut pas tout le temps y parvenir. Au-delà de son aspect purement pragmatique, cette particularité rappelle un point de l’histoire juive qui l’on retrouve également dans le vécu individuel de chacun. Les ténèbres envahissent parfois toutes choses, et ont tendance à engloutir tout, sans limite. Mais cette obscurité, qui souvent nous terrifie, peut aussi être un moment où notre vision des choses change et mature, puisque d’autres sens interviennent. Même si dans l’obscurité, nous nous perdons, parfois elle nous donne une nouvelle chance de nous retrouver. Cette possibilité constitue en soi une lumière, petite certes mais importante.
Nous devons nous efforcer de maintenir cette lumière, même minime, qui un jour nous permettra peut-être d’en allumer d’autres. Les ténèbres de l’existence sont souvent puissantes. Mais nous ne devrions en aucun cas permettre qu’elles envahissent tout et couvrent l’amour, la douceur, la capacité de compréhension, d’empathie, de se réchauffer mutuellement quand il fait froid et d’amener la lumière quand il fait sombre, toutes ces choses qui rendent la vie humaine si belle et si précieuse.
Si nous maintenons la possibilité de cette lumière, peut-être faible et solitaire mais présente, même les ténèbres ne seront peut-être plus seulement une terrible menace, mais aussi un lâché-prise pour se perdre, et puis se retrouver.
PERDERSI, E RITROVARSI (22/12/16)
Sabato sera riaccenderemo le nostre Hanukiot, con una prima timida luce. Poi forse aggiungeremo luce, sera dopo sera. Eppure la benedizione che viene recitata al momento dell’accensione dice וְצִוָּֽנוּ לְהַדְלִיק נֵר שֶׁל חֲנֻכָּה, ossia “che ci ha legati nella responsabilità di accendere una luce per Hanuccà”. La benedizione parla quindi di una sola luce, non otto.
La conseguenza pratica è che chi non riuscisse ad accendere tutte le luci, avrà adempiuto alla propria responsabilità anche se ne accendesse una sola ogni sera,.
Ma le luci non devono crescere fino a otto?
Apparentemente, arrivare a otto luci è un aggiunta di bellezza e di calore, ma non tutti, non sempre, possono riuscirci. Al di là dell’aspetto prettamente pragmatico, questa particolarità ricorda un aspetto della storia ebraica che è anche presente nel vissuto individuale di ognuno. Le tenebre invadono talvolta ogni cosa, e tendono a fagocitare tutto, senza limite. Ma questa oscurità, che spesso ci terrorizza, può anche essere un momento in cui la nostra visione delle cose cambia e matura, giacché altri sensi si metteranno all’opera. Anche se nell’oscurità ci perdiamo, talvolta essa ci dona una possibilità nuova di ritrovarci. Questa possibilità costituisce di per sé una luce, piccola ma significativa.
Dobbiamo sforzarci di mantenere quella luce, anche minima, che un giorno ci permetterà forse di accenderne altre. Le tenebre dell’esistenza sono spesso potentissime. Ma in nessun caso dovremmo permettere che esse invadano tutto e coprano l’amore, la dolcezza, la capacità di comprensione, di empatia, di scaldarsi reciprocamente quando c’è freddo e di portarsi luce quando fa buio, tutte queste cose che rendono la vita umana così bella e così preziosa.
Se manteniamo la possibilità di questa luce, magari debole e solitaria ma presente, anche le tenebre potranno forse costituire non più solo una minaccia terribile, ma forse anche un abbraccio in cui perderci, e poi ritrovarci. וכן יהי רצון .
Hag Urim sameach.
EBRAISMI (12/12/2016)
Molto spesso mi viene richiesto di parlare delle differenze, affinità e particolarità dei vari movimenti ebraici. Chi mi conosce sa che ne parlo per necessità culturale ma con poco entusiasmo, considerandomi profondamente “post-denominational”, e considerando quindi l’esistenza di movimenti ebraici nettamente delineati come un limite serio dell’ebraismo moderno. Ma siccome l’esigenza culturale esiste e l’ignoranza impera, è ogni tanto necessario occuparsene.
Per fornire quale chiave di riflessione, propongo quindi una versione appena modificata dell’articolo “Due ebrei, tre opinioni: i movimenti ebraici al di là delle apparenze”, originalmente pubblicato nel gennaio 2014 nella rivista Keshet, organo degli ebrei laici umanisti italiani. Augurandovi buona lettura, resto a disposizione per ogni osservazione o domanda.
DUE EBREI TRE OPINIONI: i movimenti ebraici al di là delle apparenze
Di Haim Fabrizio Cipriani, rabbino dei movimenti Reform e Massorti/Conservative
L’ebraismo ha sempre conosciuto un elevato grado di pluralismo. Questo elemento è stato però vissuto in modi diversi. La popolare festa di Hanuccà per esempio, non è solo riferita alla guerra di un gruppo di ebrei contro il potere ellenistico, ma anche contro gli ebrei ellenizzanti, che perseguivano una politica di assimilazione culturale. Da sempre, infatti, uno dei principali problemi dell’ebraismo è stato quello di mediare fra la necessità di conservazione e stabilità, tipica di ogni cultura religiosa, e il bisogno di un rinnovamento che permettesse alla cultura stessa di non diventare obsoleta a causa delle mutazioni sociali e storiche. Un classico esempio di questo fu l’opposizione fra Sadducei e Farisei alla fine dell’epoca del Secondo Tempio. Secondo Giuseppe Flavio “I sadducei hanno il loro appoggio solo tra i ricchi, e il popolo non li segue, mentre i farisei hanno il popolo come loro alleato.” (Antichità ebraiche 13.298). I sadducei erano infatti una forma di élite aristocratica sacerdotale molto conservatrice. I farisei invece contavano fra i loro seguaci molta gente che svolgeva umili professioni e senza ascendenze particolarmente nobili, ma che si concentrava sullo studio e sulla pratica religiosa con grande rigore. Diversi studiosi hanno mostrato come dal punto di vista sociale, ma anche religioso e legale, la differenza ricalcasse in modo abbastanza fedele quella fra patrizi e plebei nella società romana, che era quella dominante all’epoca (cfr. Louis Finkelstein, The Pharisees: The Sociological Background of TheirFaith). Pur considerando il tempio di Gerusalemme come una realtà di grande importanza, i farisei elaborarono una tradizione orale molto più ardita e innovativa, forse anche perché sentivano che l’epoca del tempio e dei sacrifici stava per concludersi. I sadducei scomparirono nel nulla poco dopo la distruzione del tempio, e da allora tutti i generi successivi di ebraismo, compresi quelli moderni, non possono che dirsi neo-farisaici.
Vi è poi l’aspetto etnico/geografico, che rese necessario un adattamento di leggi e costumi a tradizioni locali. Abbiamo quindi una versione del Talmud di area israeliana, e una più completa babilonese. Si svilupparono diverse tradizioni sia esegetiche che legali. Per questo quando parliamo dello Shulchan Aruch, uno dei più importanti codici di legge ebraica, non ci riferiamo a un libro, ma alla combinazione di due testi. Il primo, che si riferiva alla tradizione sefardita,fu scritto da Yossef Caro (Toledo, 1488 – Safed, 1575), il secondo da Moshe Isserles (Cracovia, 1520 –1572), che indicava i punti in cui gli usi ashkenaziti differivano. Ancora oggi i sefarditi si basano sul primo, gli ashkenaziti sul secondo.
L’ebraismo moderno ha dovuto misurarsi con la nuova realtà sociale dell’emancipazione, il cui risultato forse più importante fu quello di trasformare l’appartenenza all’ebraismo in una scelta volontaria. A quel punto il grande dilemma dell’ebraismo divenne quello di capire in quale misura fosse possibile all’ebreo di restare fedele alla sua appartenenza identitaria, nazionale e religiosa, senza mancare però di rispetto e di fedeltà ai suoi doveri di cittadino.
Diversi approcci furono proposti dalle autorità religiose, e tali approcci si cristallizzarono in movimenti ebraici differenti, che schematizzeremo, per chiarezza, mostrando prima le espressioni estreme, e solo in seguito le parti centrali. Chiarendo che questa analisi è necessariamente imprecisa e parziale, vista la grande complessità del fenomeno. La visione che viene spesso evocata dei vari movimenti ebraici è infatti spesso errata, e vi sono informazioni di notevole importanza che sono sconosciute alla maggioranza degli ebrei, in particolare riguardo alle sfumature interne di ogni corrente (penso, per esempio, all’esistenza di donne rabbino all’interno dell’ortodossia ebraico). Senza contare che, come in ogni istituzione, vi è una differenza fra le intenzioni dichiarate e la realtà interna, o fra le idee dell’élite pensante e quelle della “base”. Chi scrive ha un’esperienza diretta di dialogo e di lavoro pluriennale coi responsabili rabbinici e laici di diverse correnti ebraiche, che lo portano a conoscere non solo il lato ufficiale, ma anche quello reale, talvolta sommerso ma per questo decisamente interessante, di questi mondi.
Passiamo quindi a una succinta analisi.
Da un lato abbiamo gli ultra-conservatori, la cosiddetta ultraortodossia che non fa concessioni alla modernità, e che continua a immaginare una vita ebraica autarchica, in cui l’interazione pratica e culturale col mondo non ebraico è ridotta al minimo, e spesso vissuta con grande disagio. Espressioni di questo disagio si ritrovano anche nella volontà di evitare riferimenti a espressioni culturale e religiose non ebraiche. Esponenti di questo tipo di ebraismo, in un paese come l’Italia non nomineranno neppure una piazza contenente l’espressione “Santo”, per esempio San Babila, ma diranno piuttosto “Sbabila”. Questo può far sorridere, ma una conseguenza, più inquietante, è quella che si verifica quando nelle scuole ebraiche si vieta ai ragazzi l’accesso alle chiese nel corso di viaggi e gite culturali, o quando, come chi scrive ha constatato recentemente in una grande scuola ebraica francese, i responsabili religiosi ordinano agli insegnanti di cancellare manualmente la parola “chiesa” nei libri di lettura per bambini, sostituendola a mano con “monumento”. Di fatto questo tipo di ebraismo vive in una situazione costante di auto protezione e conservazione attraverso l’isolamento.
All’estremo opposto troviamo gli ultraliberali, che considerano l’ebraismo come una cultura e una tradizione, ma senza nessun elemento di tipo obbligatorio, per cui ogni ebreo (rabbino o no) ha il diritto totale di scegliere in piena libertà qualsiasi cosa gli interessi all’interno del vasto patrimonio ebraico, senza limite alcuno, o di trasformare a piacimento qualsiasi aspetto della vita ebraica per farlo corrispondere a quello che crede. In tale prospettiva, nulla di scioccante nel considerarsi per esempio ebreo ma contemporaneamente anche buddista o altro (si tratta di un fenomeno in grande crescita), o nel voler sposare una persona ebrea con un rito misto a cui parteciperanno più ministri di culto di diverse religioni, cerimonia che infatti molto rabbini appartenenti a quest’area celebrano con gioia. Se la grande apertura di questo movimento è spesso seducente per l’ebreo moderno desideroso di una sempre più grande integrazione, il risultato può essere talvolta quello di uno strano sincretismo, per esempio l’elaborazione di feste come ChrisMukka, unione di Christmas e Hannukka dove alberi di Natale e luci di Hanuccà si fondono per la gioia di molti e l’imbarazzo di alcuni.
Desidererei soffermarmi un istante su alcuni aspetti. Anche se ho voluto sottolineare aspetti estremi, e forse caricaturali, di queste correnti ebraiche, è innegabile che esse sono espressioni di volontà non prive di interesse, e talvolta forse piuttosto condivisibili. Nella chiusura di certi movimenti ebraici vi è l’espressione di un timore nei confronti di tutto ciò che potrebbe indebolire la struttura tradizionale ebraica, e anche se questo aspetto è portato a livelli estremi, non dobbiamo dimenticare che l’ebraismo rimane una cultura minoritaria e fragile, che non va solo coltivata, ma anche protetta da una sorta di diluzione.
D’altro canto, l’apertura di un certo ultraliberalismo, si basa sull’idea che, dal momento che essere ebrei è diventato una scelta a partire dall’Emancipazione, qualsiasi elemento che un ebreo scelga di mantenere o incorporare nella propria vita costituisce comunque un punto positivo. Se desidera una presenza rabbinica al proprio matrimonio misto, o delle luci di Hanuccà sull’albero di Natale, esprime comunque un anelito alle sue radici ebraiche, e in tale visione ultra iberale, a questo desiderio viene riconosciuta una sua incontestabile nobiltà. Un’altra cosa che va sottolineata è che oggi la maggior parte degli ebrei di fatto seguono questa via ultraliberale, anche molti cosiddetti “ortodossi non osservanti”, ossia ebrei che magari per diverse ragioni non frequenteranno luoghi ebraici non ortodossi, ma la cui pratica è di fatto ultraliberale.
A questo punto, è opportuno passare alle correnti “interne”, che sono spesso più sfumate e complesse. In quest’area troveremo i movimenti Reform, Conservative/Massorti e Modern Orthodox, che hanno fra loro considerevoli differenze, ma che costituiscono una sorta di “centro”, ognuno a modo suo.
L’ebraismo Reform, sviluppatosi in Germania e negli Usa a partire dal XIX secolo, propone un adattamento piuttosto radicale alla modernità, ma sforzandosi di mantenere la struttura tradizionale della liturgia e dell’osservanza, con una notevole differenza però. In questa corrente la legge ebraica perde il proprio carattere obbligatorio, e di fatto viene considerata soprattutto come una serie di usanze tradizionali, che possono essere adattate alle esigenze individuali e moderne con una certa facilità. L’autonomia di scelta individuale è considerata un elemento fondamentale in tal senso. Va sottolineato che spesso in tale movimento i rabbini mantengono un certo rigore, ma il fatto di uscire dalle categorie tradizionali della vita ebraica come responsabilità obbligatoria (che è la traduzione più corretta del termine ebraica Mitzvà) trasforma ogni scelta ebraica in qualcosa che l’ebreo può decidere o meno di adottare. Ciò che avviene è, purtroppo, quello che gli ebrei ortodossi spesso criticano in questa corrente, ossia che molti scelgano questo ebraismo per facilità, e per non sentirsi troppo in colpa qualora la propria vita ebraica non sia coerente o esemplare. Anche se questo non è quanto le autorità religiose Reform vorrebbero, la tendenza in tal senso è chiara e difficilmente negabile. Se l’ebraismo Reform delle origini soppresse una gran parte degli elementi della tradizione ebraica (leggi alimentari, uso della lingua ebraica nella liturgia, anelito al ritorno a Sion…), vi è stata poi una fase di rielaborazione nella seconda parte del XX secolo, in cui il movimento ha adottato forme e contenuti molto più tradizionali, sia nella liturgia che in altri campi, come per esempio l’atteggiamento nei confronti del sionismo. Le frange che all’interno di questo movimento non condividevano tale ritorno alla tradizione religiosa, costituiscono fondamentalmente quell’ultraliberalismo descritto sopra. In alcuni casi, come in Gran Bretagna, assistiamo a una separazione netta fra Liberal e Reform, che costituiscono quindi due branche diverse, ognuna col proprio rabbinato, sinagoghe, e istituzioni.
Va notato che, contrariamente a quanto spesso si creda, e contrariamente anche alle posizioni “ufficiali” del movimento Reform, non tutte le sinagoghe Reform sono paritarie, in una minoranza di esse infatti le donne non contano nel Minian né montano alla Torà. Si assiste poi a un notevole conflitto fra le frange più tradizionaliste della corrente Reform, di fatto molto vicine alla tendenza Massorti/Conservative, e quelle più liberali, in cui assistiamo a notevoli modifiche liturgiche, e una progressiva relativizzazione dell’importanza di elementi religiosi considerati centrali per altre frange del movimento, come la circoncisione obbligatoria.
– L’ebraismo Conservative/Massorti (il primo nome è utilizzato negli USA, il secondo nel resto del mondo) nasce nel XIX secolo come reazione alla Riforma e ad alcuni suoi aspetti giudicati eccessivi. Fra questi, l’abbandono della lingua ebraica nella liturgia (che la Riforma ha reintegrato poi progressivamente negli ultimi decenni, ma che usa spesso in alternanza alla lingua vernacolare), e del carattere obbligatorio della Halachà, la legge ebraica, che i rabbini del movimento Massorti considerarono come un’espressione fondamentale dell’ebraismo, ma con una componente evolutiva da sempre presente che poteva essere sfruttata per adattarla almeno in parte alla modernità. Con la differenza che, se nella Riforma la legge ebraica diventa soprattutto un elemento culturale suscettibile di cambiamento con una certa facilità, teoricamente nel movimento Massorti vi sono dei limiti, perché il fatto che alcune leggi possano essere modificate dipende dal fatto che vi siano precedenti, oppure opinioni minoritarie ma comunque presenti nella storia del diritto ebraico. Non tutte le modifiche desiderate sono quindi possibili, perché alcune leggi non possono essere cambiate per diverse ragioni di diritto ebraico, e il carattere obbligatorio della legge ebraica resta intatto. In tal modo si mantiene una maggiore continuità con l’elemento tradizionale. Questo almeno teoricamente. Una battuta spesso ascoltata è quella che definisce l’ebraismo Massorti/Conservative come un movimento con rabbini ortodossi e fedeli Reform, il che è spesso corrispondente a realtà. Senza contare che talvolta la ginnastica intellettuale utilizzata dal rabbinato Massorti/Conservative per giustificare alcune scelte legali appare come molto forzata. Questo può far talvolta pensare che la semplice pratica Reform di sopprimere o modificare sostanzialmente alcuni usi perché poco inaccettabili dal loro punto di vista, senza altre giustificazioni, sia in un certo senso più onesta e coerente. Certo però, il fatto che il rabbinato Massorti/Conservative si consacri con grande energia alla difficile opera di giustificare legalmente alcune innovazioni seguendo la struttura tradizionale della legge ebraica, garantisce un certo rigore dal punto di vista intellettuale e religioso.
Lo stretching halachico di alcune frange del movimento Massorti ha però portato a secessioni e scismi. Negli anni ’60 un’ala più liberale costituita dai seguaci del rabbino Massorti MordekhaiKaplan crearono un’ulteriore denominazione, l’ebraismo ricostruzionista (non si trattava solo di un maggior liberalismo, ma anche di un’impostazione teologica profondamente diversa). Più tardi, negli anni ’80, una frangia rabbinica più conservatrice che contava fra i suoi principali esponenti il grande talmudista David Weiss Halivni, scontenta dell’impostazione eccessivamente liberale del movimento Massorti, si separò dal movimento per costituire l’Union for Traditional Judaism. I temi su cui il conflitto era, ed è ancora, più forte, erano quelli della parità fra uomini e donne nel rito, la posizione nei confronti dell’omosessualità, e un atteggiamento eccessivamente liberale del movimenti nei confronti di innovazioni liturgiche significative.
Anche il movimento Massorti/Conservative non è quindi esente da paradossi. Se di fatto ammette il rabbinato femminile, non tutti i suoi responsabili laici in pratica accetterebbero una donna rabbino nella loro comunità, e questo in particolare in Europa.
Di fatto, le frange più liberali di tale ebraismo corrispondono a posizioni praticamente uguali a quelle dell’ebraismo Reform più tradizionalista, mentre quelle più tradizionaliste si apparentano all’ortodossia moderna, come vedremo.
L’ortodossia moderna, presente soprattutto in Israele e negli USA, tenta di coniugare un rispetto profondo della Halachà tradizionalmente intesa con un’apertura filosofica alla cultura non ebraica e alle scienze. Si tratta di un movimento che conosce anch’esso un certo pluralismo piuttosto ampio, giacché al suo interno si trovano atteggiamenti aperti a notevoli riforme halachiche, specie riguardo al ruolo femminile. In tali frange più moderniste all’interno della corrente si incoraggia per esempio la formazione di minianim femminili, o la partecipazione attiva di donne per condurre alcune fasi del culto sinagogale. Inoltre, negli ultimi anni, alcuni istituzioni facenti parte di questa corrente (Yeshivat Maharat a New York, Machon Hartmann a Gerusalemme) hanno esteso la possibilità dell’ordinazione rabbinica alle donne, un cambiamento storico che chiaramente non è stato accolto con benevolenza in altri ambiti ortodossi, ma che è un segno della vitalità di questa corrente e dei suoi sforzi per misurarsi con le sfide del nostro tempo.
Di fatto quindi possiamo dire che le frange più moderniste di tale movimento si confondono con quelle più tradizionaliste della corrente Massorti/Conservative. E, paradossalmente, osserviamo che, laddove in alcune frange minoritarie del movimento Reform e Conservative/Massorti l’idea di una donna rabbino non è davvero accettata, tale opzione è contemplata in alcune frange, anche se minoritarie, dell’ortodossia moderna.
Mi pare opportuno citare anche l’ebraismo umanista laico, che però ha una natura profondamente diversa perché i movimenti di cui ho parlato finora sono tutti movimenti religiosi, nonostante le notevoli divergenze fra di loro.
A quanto detto va aggiunto che ogni movimento comporta diverse istituzioni sia laiche che religiose e, fra l’altro, diversi tribunali rabbinici (battè din). Tali tribunali rabbinici hanno orientamenti diversi, spesso anche all’interno della stessa corrente, e questo genera talvolta notevoli difficoltà. Tali problemi vanno al di là di quel che è conosciuto ai più, ossia che per esempio nell’ortodossia gli atti religiosi del rabbinato non ortodosso non siano riconosciuti. Intanto questo non è sempre vero, perché vi sono casi in cui in cui determinati atti religiosi compiuti da rabbini non ortodossi notoriamente rigorosi e osservanti sono stati riconosciuti anche all’interno dell’ortodossia. Di contro invece, piuttosto spesso alcuni atti religiosi non vengono riconosciuti all’interno dello stesso movimento di cui faceva parte il tribunale rabbinico che li ha effettuati. Spesso conversioni ortodosse non sono accettate da altri tribunali rabbinici ortodossi, talvolta perchè alcune istituzioni reputano altre istituzioni non sufficientemente ortodosse, ma più spesso per ragioni esclusivamente politiche. Incidenti simili avvengono regolarmente all’interno di tutti i movimenti ebraici, in considerazione delle diverse sfaccettature presenti all’interno. Nel movimento Reform, per esempio, vi sono molte sfumature nei confronti del riconoscimento della patrilinearità, per cui in alcune frange del movimento di fatto viene accettato come ebreo chiunque abbia un’ascendenza ebraica paterna, mentre in altre viene richiesta una conversione, anche se molto agevolata perché considerata una sorta di ritorno. Questa e altre notevoli differenze comportano confusioni e creano spesso problemi, perché accade che alcune persone cambiando sinagoga o città scoprono nella loro nuova comunità regole piuttosto diverse da quelle della comunità precedente, e questo anche all’interno dello stesso movimento. Talvolta, in qualsiasi movimento, questo avviene anche nella stessa comunità se un rabbino più liberale è sostituito da uno più tradizionalista, o viceversa.
Questa mappa pluralistica del mondo ebraico suscita una serie di riflessioni. L’esistenza di una tale varietà di orientamenti comporta inevitabilmente delle disfunzioni, che abbiamo evidenziato. Come accade per qualsiasi analisi, una visione più dettagliata provoca anche necessariamente una maggiore coscienza dei limiti e delle debolezze che sono comuni a ogni istituzione. Ma sarebbe ingiusto fermarsi a questo. Questa situazione è anche espressione della grandissima vitalità presente nell’ebraismo contemporaneo. Ognuna di queste sfumature, in questa sede semplificate in modo estremo, corrisponde a uno sforzo reale per rendere possibile e accessibile all’ebreo del nostro tempo un certo grado di vita ebraica in un mondo che tende a fagocitare tempo ed energie.
Certo però, lo abbiamo visto, questo pluralismo ha anche un costo in termini di confusione e disordine anche riguardo ad aspetti fondamentali, come per esempio la comprensione di chi è ebreo, o di quali sono i doveri fondamentali di un ebreo responsabile. Nell’esercizio del mio rabbinato incontro regolarmente ebrei perplessi e confusi da quello che viene percepito come un disordine. Il problema dell’esistenza di diversi movimenti chiaramente delineati è il rischio di un’accentuazione di questo disordine, a causa dei disaccordi presenti all’interno dei movimenti stessi, oltre che all’esterno. Quel che in origine sarebbe concepito per fare chiarezza, ossia la costituzione di un movimento, di fatto non perviene a farlo, e diventa anzi fonte di ulteriori divisioni. Tutto ciò tende a esacerbare un individualismo già esasperato nella società moderna, creando degli ebraismi à la carte che finiscono poi per lasciare molti individui insoddisfatti. E’infatti noto che l’essere umano ha tendenza a desiderare sempre di più, di conseguenza se nove elementi su dieci vengono adattati per compiacerlo, esso diverrà molto intollerante se non potrà avere anche il decimo, anzi molto più che se nessuna concessione fosse stata fatta in partenza. Questo tipo di mentalità provoca scismi, scissioni e spaccature in tutto il mondo ebraico. La famosa barzelletta dei due ebrei con tre opinioni. Chiaramente l’aspetto politico ha un ruolo pesante in questo processo, perché il fatto che semplici correnti culturali o religiose si organizzino in istituzioni con un’indipendenza organizzativa, politica ed economica, crea spesso situazioni in cui l’interesse del movimento diviene la priorità.
Dal mio punto di vista, la libertà individuale e di coscienza è una conquista irrinunciabile della modernità, ma è comunque fondamentale lottare contro il disorientamento e l’alienazione generati da un’esasperazione del margine di scelta. Dobbiamo sempre considerare il fine ultimo, che è quello di mantenere un ebraismo vivo ma coerente, articolato ma solido, in modo tale da poter resistere a un’assimilazione rampante. Il fatto che molti ebrei oggi considerino la loro corrente ebraica come più importante dell’ebraismo stesso è a mio modesto avviso allarmante. Purtroppo, mi è capitato varie volte, e anche da parte di leaders religiosi, di ascoltare affermazioni come “quando io parlo di ebraismo liberale, per me “liberale” è scritto in grande, “ebraismo” in piccolo”. E questo tipo di visione è presente in molte espressioni ebraiche. Tali campanilismi sono semplici forme di una idolatria moderna, l’idolatria del sé e delle proprie convinzioni. La letteratura ebraica chiama questa l’idolatria avodà zarà, letteralmente “lavoro disperso”, perché provoca dispersione di energie di attenzione distraendo dal centro per attirare l’attenzione su dettagli, e trasforma il mezzo in un fine. Abbiamo invece bisogno di punti di riferimento condivisi, e dovremmo lavorare per trovarli. La parola Tsion, prima di indicare un luogo preciso, significa punto di riferimento. Nella Haggadà di Pésach diciamo che i figli di Israele furono liberati perché erano rimasti metsuyanim (dalla stessa radice della parola tsion, appunto), ossia avevano mantenuto i segni, i punti di riferimento comuni, che li avevano aiutati a non disperdersi, a non esplodere in mille rivoli insignificanti.
Oggi si parla molto, ed è importante farlo, di dialogo interreligioso. Ma, se siamo in grado di parlare con le altre religioni, abbiamo purtroppo molti più problemi di dialogo all’interno dell’ebraismo stesso.
Non si tratta certo di negare l’importanza di un pluralismo ebraico sano e vitale, che deve essere salvaguardato e promosso. Si tratta di saper essere consapevoli quando questo pluralismo diventa una cacofonia, e l’unità si frammenta. Per usare un linguaggio che mi è caro in quanto musicista, l’ebraismo dovrebbe, pur mantenendo la possibilità e la necessità della dissonanza, sviluppare la capacità di trovare punti di riposo, detti in musica cadenze perfette, perché solo quest’alternanza tra dissonanze e consonanze può creare un equilibrio positivo e benefico.
PROSSIMI APPUNTAMENTI DELLA COMUNITA’ ETZ HAIM
A questo link il calendario degli appuntamenti della comunità di rav Cipriani, servizi liturgici, lezioni di Talmud, di pensiero ebraico ecc…
Mart 13 dicembre – Studio del Talmud
Giov 15 dicembre – Lezione di ebraico
Dom. 18 – ore 9.30 Ufficio di Shacharit seguito da breve studio di Torah
Scrivere alla mail: ravcipriani@gmail.com
Altre informazioni a questo link:
http://haim.cipriani.free.fr/etz_haim_108.htm
HUNGARIAN THOUGHTS (6/12/16)
Solo e intalleddato, lo scorso Shabbat, nella quiete dei canti della bella sinagoga di Dohany Street a Budapest, guardandomi intorno e guardandomi dentro, riflettevo sul perché Yaacov nasca tenendo per il tallone il suo gemello Esav che lo ha preceduto. Da questo suo atteggiamento deriva peraltro il suo nome di “tallonatore”, e tale atteggiamento è generalmente letto come una volontà di soppiantare il fratello.
Ma è davvero così?
In fondo, Yaakov ha trascorso tutta la sua corta esistenza nel ventre materno in totale simbiosi con Esav. Nulla di più naturale nel fatto che, quando questi se ne va, Yaakov desideri rimanervi legato. Quindi forse la ragione profonda è solo il desiderio di non separarsi da quella che lui considera una parte preziosa del suo essere più profondo. Yaakov trascorrerà infatti buona parte della sua vita tallonando Esav, prendendo il suo posto come primogenito e poi travestendosi per essere riconosciuto in quanto Esav, al fine di ricevere la benedizione paterna destinata al fratello. E tutto questo, forse, non per furbizia o gelosia, bensì per ritrovare quell’intimità e quel calore unici che aveva conosciuto durante la gestazione, e per raggiungere e tenere dentro sé quella parte di lui che amava così tanto. Perché la vita spesso allontana da ognuno di noi aspetti anche importanti del nostro essere, che talvolta tentiamo di reintegrare, ma spesso senza successo. Forse per questo, mi dicevo, la Torà definisce Yaakov איש תם, “uomo integro”. Non perché lo fosse intrinsecamente dal punto di vista morale, ma perché per lui la ricerca di quella pienezza derivante dall’integrazione di tutti gli aspetti costituiva un fine importantissimo, che egli avrebbe perseguito anche con mezzi discutibili.
Ho pensato quindi che forse anche la lotta col misterioso aggressore, che avviene la notte precedente l’incontro con Esav, può essere vista come il momento in cui Yaakov si prepara finalmente, dopo tanti e tanti anni, a reintegrare Esav. Quel suo Esav la cui mancanza non poteva sopportare, che bacerà e cingerà. L’aggressione notturna, al termine della quale egli riceverà il nome Israel, simboleggia forse il pericolo inerente a ogni processo di questo genere, suscettibile di condurre sì a vita e a pienezza, ma anche di distruggere e generare incomprensione e addirittura odio, come spesso avviene nelle vicende di Yaakov.
Ed è per questo che egli riceverà il nome Israel a quel momento. Il fatto che sia proprio Yaakov a divenire il terzo patriarca e il punto d’arrivo del cammino patriarcale, nonostante egli sia figura eticamente problematica quando comparata ad Avraham e Itshak, appare in effetti piuttosto misterioso.
E quindi, mi sono detto, Israel, nome che significa anche “lottare in direzione di …”, è anche colui che fino in fondo non rinuncia a lottare per questa pienezza da tallonare e raggiungere integrando e riconquistando sfere lontane e forse inaccessibili, anche quando questo comporta, come nella vita di Yaakov, perdite e costi elevati.
Ed è qui, mentre ragionavo di mancanze certe e pienezze possibili, di lotte necessarie e perdite ineluttabili, che la Tefillà alla sinagoga Dohany si è conclusa. Un bicchiere di un alcool ungherese potentissimo dal nome impronunciabile (!) mi è stato porto per il Kiddush. Ma non smettevo di chiedermi quale forza guidasse e motivasse questa figura così tragica che è Yaakov nel tallonare e ricercare quella sfera che gli era venuta a mancare alla nascita. Nostalgia? Solitudine? Determinazione? Fiducia? Disperazione?
Non trovando una risposta, mi sono disintalleddato e, sempre guardando intorno e dentro, ho recitato Kiddush.
PATERNITA’ (1/12/16)
“E queste sono le generazioni di Itshak figlio di Avraham: Avraham generò Itshak” [Gen. 25:9]
La ridondanza del testo è evidente. Che necessità c’è di ripetere che Avraham generò Itshak, dal momento che è appena stato detto che Avraham è suo padre?
Noi sappiamo che Avraham in realtà quasi ha eliminato il figlio sull’altare (vedi il nostro commento “Legature”). Quando pensiamo a questo non dobbiamo dimenticare che secondo la tradizione rabbinica Itshak assomigliava moltissimo al padre (cf. Rashi su Gen. 25:9 s.v. אַבְרָהָם הוֹלִיד אֶת יִצְחָק). Quindi, quando Avraham si prepara a sacrificarlo, in realtà è pronto a uccidere se stesso allo specchio.
Quel figlio che Avraham prova a uccidere senza successo, è quel figlio che non può portare nulla di nuovo nel mondo, perché altro non è che la replica esatta del padre. Il suo essere figlio altro non è che una casualità fra tante, perché nessun padre sceglie suo figlio, né il figlio sceglie il proprio padre. E’ forse questa constatazione di inutilità che porta Avraham a comprendere l’ordine della Trascendenza in tal senso, perché le generazioni e conseguenze di ciò che si è costruito in un modo che appare come inutile possono a volte diventare insopportabili agli occhi di chi l’ha fatto, e portare alla tentazione della distruzione, che è anche un’autodistruzione. Eppure, Avraham non sopprimerà suo figlio, ma sopprimerà comunque la sua relazione con lui, al fine che il figlio viva e si costruisca altrove, lontano dal modello e dalle sembianze del padre.
Forse il testo, nella sua apparente ridondanza, allude a due forme diverse di paternità. Nella prima, quasi casuale, il figlio non è scelto, e non potrà essere altro che una copia sbiadita, e forse inutile, del padre.
Nella seconda, il padre comprende che sta a lui assumere pienamente il proprio ruolo e canalizzare il figlio verso quella che è la sua strada, rinunciando a farne la propria copia ma permettendogli di affermare la propria autonomia e alterità. Il prezzo da pagare per tale scelta può essere molto elevato, può comportare sofferenza e il sacrificio di molte cose, fra cui talvolta la relazione stessa.
Ma attraverso questo Avraham accede a una seconda dimensione della paternità, talvolta drammatica ma necessaria, che permetterà lo sbocciare della storia d’Israele. Itshak è suo figlio non perché proviene da lui biologicamente, ma perché in un secondo tempo Avraham sceglie di essere suo padre.
E’ in questo passaggio fra l’essere e lo scegliere di essere che si realizza la possibilità del futuro d’Israele, da Avraham, fino a Itshak, fino a Yaakov.
E’ in questo passaggio dall’essere allo scegliere di divenire ciò che si è che si realizza la possibilità dell’a-venire di ognuno di noi. וכן יהי רצון
Shabbat Shalom, Chodesh Kislev Sameach.
30/11/2016
A DOMANDA RISPONDO su Rivelazione
LEGATURE (20/11/2016, Uithoorn)
La narrazione della legatura di Itshak costituisce da sempre uno dei passi più discussi e complessi del Tanach.
Ma davvero la Trascendenza chiede ad Avraham di uccidere suo figlio, o è il patriarca a non capire? E perché Avraham accetta senza discutere, laddove aveva negoziato attivamente per ottenere la salvezza di Sodoma?
Ho scritto abbondantemente su questi interrogativi nei miei libri, ma con il passare del tempo percepisco sfumature diverse in questo episodio.
Avraham ha sofferto molto per avere un figlio. Ne ha avuti due, in realtà, ed entrambi sono in un certo senso sacrificati. Ismaele viene allontanato, forse perché vuole essere una copia di Itshak (se si legge in tal senso Gen. 21:9 dove è detto che Ismaele “faceva Itshak”…), cosa che nuocerebbe a entrambi, per cui deve potersi costruire altrove. Itshak invece viene sacrificato al suo ruolo di erede del patrimonio spirituale del padre, elezione che lo renderà cieco e lo priverà del rapporto con suo padre, che nella narrazione biblica non incontrerà più. Avraham torna infatti solitario dal luogo della legatura [Gen. 22:19], si occuperà poi di trovare una moglie a Itshak senza interagire con lui direttamente [Gen. 24], e i due si ritroveranno nello stesso luogo solo al funerale del patriarca [Gen. 25:9]. Itshak non viene quindi ucciso, ma il sacrificio avviene comunque, perché molte altre cose sono sacrificate, con conseguente sofferenza da parte di tutti, e questo senza dimenticare la morte di Sarah, narrata nel capitolo seguente alla legatura. Il rapporto di causa a effetto non può sfuggire, infatti diversi midrashim lo propongono, e Rashi vi fa riferimento nel suo commento a Gen. 23:4.
Ma perché tanta sofferenza? Cui prodest?
Un indizio viene dal fatto che quando la Trascendenza chiede ad Avraham di “elevare” il figlio, in Gen. 22:2, la radice ebraica usata,עלה , può significare sia “elevare” che “far volare un fumo”.
La prima domanda quindi è: Avraham è chiamato a distruggere il figlio o a raffinarne l’essenza? A provocare indicibili sofferenze a tutti, o a mostrare la forza e la necessità di scelte che comportano sì grande sofferenza ma anche crescita?
A meno che il testo non voglia suggerire che mettere al mondo creature, ossia educarle (non credo si parli di genitorialità biologica, ma educativa e spirituale) significa necessariamente in un certo senso sacrificarle. Ogni figlio/discepolo non è forse infatti vittima di scelte operate da chi gli trasmette la vita/educazione? Ogni educatore/genitore non è forse portato, più o meno coscientemente, a scegliere cose che possono portare all’elevazione ma anche alla distruzione del figlio/discepolo? E anche quando tali scelte sono realizzate con la massima responsabilità e attenzione (tutti amano pensare di farlo, vero?), questo non si traduce comunque nel sacrificio di alcune cose a scapito di altre? E quand’anche questo venisse fatto col pensiero del bene supremo del figlio/discepolo, il risultato non sarebbe comunque lo stesso?
Molte domande, le quali mi portano a pensare che il figlio/discepolo non potrà che essere vittima di scelte compiute o di altre evitate per mancanza di coraggio, e porterà con sé nel bene e nel male il peso di questa eredità per il resto dei suoi giorni. E’ questa la vera “legatura”, messa in scena da Avraham, una legatura dalla quale nessuno si libera davvero. Una legatura della vita, nel senso che va necessariamente a limitarla, e che può costituire talvolta raffinamento ed elevazione, talvolta soppressione.
Ma allora trasmettere, che nel pensiero ebraico classico equivale a mettere al mondo e dare nascita, non significa forse anche sacrificare almeno in parte chi riceve la trasmissione?
E dare un certo grado di vita, non implica forse anche il dare un certo grado di morte, attraverso questa dinamica dolorosa ma necessaria?
Mi chiedo se, dietro la narrazione dolorosa di questa legatura, che mi commuove alle lacrime ogni anno e me la rende difficile da cantare in sinagoga, non vi sia un insegnamento volto ad Avraham e a tutti coloro che da allora si incamminano, coltello alla mano, sulle sue tracce salendo sul monte MorYah, nome molto evocativo che può significare “amarezza di Yah”. Non è forse la Trascendenza il primo carattere genitoriale sofferente e amaro descritto dalla Torah, che deve legare e sacrificare le proprie creature al fine di costruire il divenire del mondo?
Mi pare quindi che questo episodio costituisca una riflessione sulla necessità di accettare l’inevitabile trasformazione, profonda e talvolta traumatica, delle relazioni e delle dinamiche umane, in un cammino di trasmissione e di crescita qual è la relazione fra genitore/educatore e figlio/discepolo. Perché l’opportunità di crescere comporta necessariamente scelte, e le scelte portano ineluttabilmente alla legatura/limitazione e al sacrificio di qualcosa, di qualcuno, o di entrambe le cose. והמשכילים יבינו.
COME UN FOGLIO BIANCO (13/11/2016)
“E YHVH disse ad Avraham: Vai verso te, dalla tua terra, da dove sei nato, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò.”[ Gn 12:1]
Andare verso di sé. Programma vasto, affascinante e non privo di rischi. Se Noé viene presentato dalla Torà come “giusto integro” [Gn. 6:9], Avraham non è presentato in nessun modo. Quasi a sottolineare che, nel momento in cui va verso se stesso, esso è un foglio bianco. Ma, se il sé è altrove, è immaginabile raggiungerlo? Mi sembra significativo che il testo non indichi nessuna destinazione ben definita, insistendo invece su tutto quello che Avraham deve lasciare dietro di sé. La Trascendenza invita quindi il patriarca a un cammino in cui lo sradicamento, il saper fare tabula rasa per poter cercare davvero, costituisce la componente più importante. Questo movimento di Avraham, questa sua disponibilità a sradicarsi e muoversi verso un sé nuovo, è da allora il segno di ogni ricerca spirituale autentica, che ci spinge verso la terra più ignota che si possa immaginare: noi stessi.
POTENZIALITA’ ORIGINALE (4/11/2016)
“Moltiplicare moltiplicherò la tua angoscia e le tue gravidanze […] E con il sudore della tua fronte mangerai pane […]”[Gen. 3:16 – 19]
Troppo spesso un’abitudine di ragionamento non ebraico ci fa leggere l’episodio del frutto proibito come un “peccato originale”, e le sue conseguenze come punizioni.
In realtà questo episodio non è qualificato dalla Torà come “peccato”, ma racconta il risveglio dell’uomo alla responsabilità, e la sua capacità e volontà di prendere in mano il proprio destino e il proprio divenire. Questo genera la più grande delle benedizioni, ossia la possibilità di non accontentarsi del mondo nello stato in cui è, ma di volerlo elaborare.
Parallelamente, il testo riferito alla donna non parla di dolore fisico come spesso si dice, ma sembra alludere soprattutto all’angoscia rispetto a questo divenire. Il passo infatti parla di una moltiplicazione delle gravidanze, ossia di una capacità di dare più vita, e non vi è traccia di maledizioni o sofferenza in questo aspetto. Ma la vita volta verso un’assunzione di responsabilità per le proprie scelte, e non nell’ottica di un’obbedienza bovina, comporta inevitabilmente questo tipo di angosce.
Il fatto di poter cibarsi di pane, ossia di elaborare le risorse lorde che il mondo dà all’uomo, anche se chiaramente con fatica, non è una punizione, ma l’espressione di un potenziale creativo immenso. Il poter provare angoscia per il divenire e il futuro, è solo conseguenza diretta della scelta di avere un ruolo nella sua costruzione.
Questo episodio non narra un peccato originale, ma le origini della potenzialità umana.
ETERNITA’ (11/10/2016, vigilia Kippur)
Uno dei testi che vengono recitati più frequentemente nella liturgia di Yom Kippur è:
“Ricordaci per la vita, sovrano che ama la vita, e inscrivici nel libro della vita, per te, Forza di vita.”
Questa centralità della vita è in assonanza con quanto scritto nella Torà: “E sceglierai la vita”[Deut. 30:19]. Ma come scegliere la vita? Essa fa parte delle cose che non possiamo dominare, giacché non dipende da noi vivere. Per questo, quando in questi giorni esprimiamo speranza di vita, dobbiamo ricordarci che non si parla di quantità, ma di densità e spessore. Non si tratta tanto di aggiungere anni alle nostre vite, ma di aggiungere vita agli anni che ci saranno eventualmente concessi. E questa densità è una vera e propria forma di eternità.
Gmar Hatimà Tovà.
VUOTO (Erev Rosh haShanà, 30/9/2016)
“Perché essa non è cosa vuota da voi, perché essa è le vostre vite.” [Deut. 32:47]
Questa frase è davvero particolare, con questo “da voi” (spesso è infatti tradotto “per voi”), che i maestri interpretano in questo senso: “Se la cosa è vuota, questo viene da voi” [JT Peah 1: 1.].
Quando contempliamo il vuoto nelle cose, è il nostro vuoto che contempliamo.
A tutti noi l’augurio di saper creare un anno di pienezza e non di vuotezza.
Shabbat Shalom, Shanà Tovà uMevorechet, Chetivà v’Hatimà Tovà
GIUSTIZIE (9/9/2016)
“Giustizia, giustizia perseguirai” [Deut. 16:20]
La ricerca della giustizia, che sia nelle relazioni interpersonali o in ambito strettamente giudiziario, è da sempre una delle basi dell’ebraismo. Ma perché la Torà ripete la parola “giustizia” due volte? Forse per ricordare la necessità di una giustizia perseguita per fini giusti ma anche con mezzi giusti. E poi, la ricerca di una visione giusta e equilibrata sia di sé che degli altri, e non di un “giudizio” che vada solo in un senso. Un’altra possibilità è che vi siano due giustizie, quella “legale”, e quella “meta-legale”. Quest’ultima va al di là della stretta misura della Legge e del diritto, e può essere dettata dall’intuizione etica ma difficilmente potrà essere fissata sui codici.
Queste diverse dimensioni della giustizia, e il sottile equilibrio necessario fra esse, dovrebbero quindi costituire un punto importante nel cammino tracciato dalla spiritualità ebraica. Attenzione però, la Torà non parla di riuscire a realizzare tutto questo, ma solo di perseguirlo, di lavorarvi alacremente, giacché il fine sarà necessariamente difficile, e forse impossibile, da raggiungere. “Giustizia, giustizia perseguirai”.
Shabbat Shalom uMevorach
ENTUSIASMO RELIGIOSO (22/7/2016)
Nella pericope biblica di questa settimana, leggiamo di Bilam, sorta di veggente che il re di Moab, ostile al popolo ebraico che avanza nel deserto, assolda con lo scopo di maledire Israele. Bilam però non ci riuscirà malgrado desideri farlo, e al contrario proferirà delle splendide benedizioni [Nm. cap. da 22 a 24]. Bilam rimane quindi un personaggio complesso e ambiguo.
Vi sono analogie molto interessanti fra i due personaggi di Bilam e Avraham, paralleli che suggeriscono un contrasto poi ripreso dai maestri nei Pirké Avot [Mishnà Avot 5:19]. I due provenivano dallo stesso luogo, Aram Naharaim [Gn 24, 4; 24, 10; Nm 23, 7; Dt 23, 5.], sul fiume Eufrate, culla della civiltà. Entrambi attraversano situazioni il cui risultato è ben diverso da quanto atteso: Avraham si preparerà a immolare il figlio, e Bilam a maledire Israele. Ma nessuna di queste due azioni si realizzerà. Dopo la conclusione di queste loro peripezie, entrambi compiono queste tre azioni: tornano, si alzano e se ne vanno; i due versetti in oggetto [Gn 22: 19; Nm 24: 25.] sono gli unici in tutta la Torà in cui i tre verbi lashuv, lakum e lalekhet compaiono insieme. Come Bilam, anche Avraham si alza presto e sella personalmente il suo asino per partire verso il misterioso luogo dove ha compreso di dover immolare il figlio Itshak [Gn 22: 3.]. Entrambi questi personaggi, che la Torà ci dice avere due attendenti, provvedono personalmente a sellare il proprio asino, come segno del loro entusiasmo, Bilam perché accecato dall’ostilità verso Israele che il suo mandante Balak gli ha trasmesso, Avraham perché accecato dal suo desiderio di eseguire la volontà di Dio. Un midrash [Bereshit Rabbà 55:8.] suggerisce che l’odio estremo e la devozione estrema sovvertono l’ordine naturale. Lo stesso midrash suggerisce che la generosità disinteressata del gesto di Avraham controbilanci l’entusiasmo folle di Bilam. Una visione forse ottimistica, secondo cui ad ogni atto dettato dall’odio ne corrisponde uno d’amore, in questo caso precedente, che permette all’universo intero di mantenere un equilibrio. Personalmente ritengo che il legame fra queste due figure alluda a qualcos’altro. Tutti gli atti basati su estremi, che siano quelli dell’odio che quelli dell’amore, sono fondamentalmente simili nella loro natura. Per questo è fondamentale saper mantenere quella distanza e quell’equilibrio che né Avraham né Bilam seppero mantenere, creando situazioni potenzialmente disastrose. Precipitarsi a eseguire quella che si crede essere la volontà divina, senza riserve né riflessione, è una cosa bella, ma a volte letale. Oggigiorno, il potenziale catastrofico della fede religiosa, e delle sue manipolazioni politiche, è ben conosciuto. Per questo l’equilibrio fra fiducia e senso critico è un ingrediente fondamentale di una spiritualità matura.
Shabbat Shalom.
LA SCELTA (3/7/2016)
In memoria di Elie Wiesel z’l
Questa settimana, nel ciclo delle letture sinagogali, abbiamo letto nel libro biblico dei Numeri la vicenda dei dodici esploratori che, inviati da Mosè a valutare le potenzialità della terra di Canaan, ritornano scoraggiando il popolo d’Israele, il quale si rivolta esprimendo il desiderio di tornare in Egitto. Come conseguenza della sua palese immaturità, il popolo dovrà vagare per quarant’anni nel deserto, prima che una nuova generazione possa entrare nella terra (Num. Cap 13-14). Possiamo vedere in questo rifiuto di entrare nella terra una volontà di rimanere in una dimensione, quella del deserto, che è interamente costruita sulla proiezione ideale e sulla fantasia, e da un timore di penetrare nella dimensione della realtà. Qualcosa di analogo sarebbe il caso di una madre che desiderasse prolungare oltre i tempi il periodo della gestazione, caratterizzato da un’idealizzazione del rapporto con un bambino che è desiderato e spesso idealizzato, ma non ancora conosciuto, e che una volta nato dovrà essere accettato nella sua realtà, non sempre agevole, di essere umano indipendente. Ed è per questo che nella narrazione biblica il popolo d’Israele dovrà attendere quarant’anni, dove la cifra quaranta rappresenta il numero di settimane della gestazione. Perché il popolo dovrà passare attraverso una nuova fase di gestazione che gli permetterà un giorno di partorire se stesso e di aprirsi a una realtà magari non ideale ma necessaria, con tutte le responsabilità che questo comporta.
Questa scelta fra aprirsi al cambiamento e accettare di vivere pienamente una vita magari scomoda ma reale, oppure restare nel deserto delle aspettative e delle proiezioni idealizzate, è la scelta che si pone davanti a ognuno di noi, ogni giorno.
NASCONDINO (PUBBL 22/03/2016)
Purim è una festa affascinante e inquietante, giacché dietro un velo di grande leggerezza cela l’angoscia dello sterminio, ma pone anche il problema dell’assenza del Divino, mai menzionato nel libro di Ester. Il fatto che la radice del nome Ester significhi celare, dissimulare o contraddire ha da sempre fornito alla vicenda raccontata, ma anche alla festa che vi si ispira, un carattere ambiguo, più tardivamente poi sottolineato dall’uso tradizionale di travestirsi.
Ma chi si nasconde a Purim?
E’ forse il Divino a nascondersi dietro le pieghe degli avvenimenti, giacché in persiano Purim significa caso, sorte, o destino?
O forse è l’uomo a nascondersi dietro l’idea di un Divino che si nasconde dietro le pieghe degli avvenimenti, per evitare di assumere piena responsabilità?
La tradizione ebraica considera che Purim sarà l’unica festa a essere celebrata in epoca messianica (JT Meghillah 1:5; Mishneh Torah Hilchot Meghillah 2:18). Forse perché in quei lontani giorni l’uomo avrà appreso il principio della sua esclusiva responsabilità nel proprio divenire?
Purim Sameach,
Rabbino Haim Fabrizio Cipriani
The Wall (PUBBL 26/2/2016)
Come molti ebrei progressisti ho accolto con gioia la notizia della vittoria legale che darà la possibilità di installare al Kotel uno spazio supplementare per le donne che desiderano pregare indossando indumenti rituali come Tallet e Tefillin. Un’ulteriore divisione sarà riservata ai gruppi misti, che desiderano pregare con uomini e donne insieme.
Poi però mi sono reso conto che il dover ricorrere a celle separate per poter esprimere la propria spiritualità è un po’ triste. Mi vengono in mente i film americani con le celle in fila e il guardiano che passeggia nel corridoio con un mazzo di chiavi in mano. Doversi ghettizzare per recitare, ogni gruppo da parte sua, le stesse preghiere in cui si esprime, fra l’altro, la speranza dell’unità del popolo, mi pare caricaturale. E tutto perché lo si vuole fare a tutti i costi in quel luogo. Senza contare che, a questo punto, come si dice, לדבר סוף אין, non c’è fine alla cosa. Ci vorrà un’altra sezione per i mancini (mai vista una persona coi tefillin sul braccio destro ? Non si può guardare…), una per chi desidera portare il proprio cagnolino, ecc. … E non c’è spazio per tutti… Nella nostra tradizione, gli oggetti suscettibili di portare a derive idolatre erano distrutti. Mosè per questa ragione distrugge le Tavole della Legge (Es. 32:19). E se da un lato il luogo di cui si parla merita grande rispetto, e così anche l’anelito di alcuni a potervi esprimere la loro spiritualità in modo appropriato, è importante ricordare che un luogo, come un oggetto, ha solo un ruolo di mediatore. Quando il mediatore si sostituisce al messaggio, e un mezzo si trasforma in un fine, questo dovrebbe mettere in allarme. In ebraico classico questo fenomeno è chiamato Avodah Zarah, “lavoro disperso”, perché esprime la perdita della nozione di priorità e di centro delle cose.
Shabbat Shalom,
Rabbino Haim F. Cipriani